Queste pagine sono state da me realizzate nel 1999. Credo che possano essere interessanti ancora oggi per conoscere la storia della città. Buona lettura.
La leggenda del nome “Genova” e il Basso Medio Evo
Sull’origine del nome “Genova”, esistono diverse interpretazioni, ma, di sicuro, quella più affascinante è che essa derivi dalla parola latina “Janua”, cioè “porta”. Bello pensare che questa città possa essere davvero una “porta”. Di certo lo è, e lo è sempre stata, per le navi che arrivando nel suo porto trovano un rifugio sicuro e l’ingresso per le vie commerciali del continente; ma, è ancora più bello pensare che essa sia la porta per le tante culture che nei secoli ne hanno fatto una città destinata a lasciare un segno nella storia.
Ma il nostro viaggio, come già detto, deve cominciare dagli inizi dell’epoca d’oro per Genova. Questo periodo può cominciare, almeno per quanta riguarda le origini, dagli albori del Medio Evo, e qui si deve fare una considerazione. Quando nasce il Medio Evo? Molti in Italia, lo considerano con l’arrivo dei Longobardi nel 569, ma l’avvenimento che diede l’avvio di questa epoca è da considerarsi la caduta dell’Impero Romano, avvenuta circa un secolo prima, quando nel 476, Odoacre si fece proclamare Re, deponendo l’ultimo Imperatore romano Romolo Augustolo. Da qui, possiamo cominciare il nostro racconto e molti si chiederanno: “Ma Genova, cosa c’entra?”.
Genova c’entra eccome, visto che per molti secoli riuscì a mantenere una propria autonomia grazie alla posizione favorevole che permetteva all’Impero di essere salvaguardato dalla minaccia degli arabi. Ed è proprio da questa situazione favorevole che Genova riuscirà ad attivare tutti i commerci che la renderanno una delle città più importanti e conosciute dell’epoca.
Purtroppo di questo primo periodo medievale, detto “Basso Medio Evo”, ci restano ben poche notizie, anche perchè la maggior parte dei documenti storici dell’Archivio di San Siro, furono bruciati dai Saraceni nel saccheggio del 935. Si sa che allora la città contava di circa 4000 abitanti, residenti entro le mura delimitate dai due “Canneti”, il Lungo e il Curto, con due porte la Soprana e la Sottana, dove si trovava la piazza principale. Altre duemila persone abitavano oltre le mura, dedicandosi soprattutto all’agricoltura e alla pesca.
L’Italia era in mano ai conquistatori germanici, i Longobardi, e anche Genova dovette sottomettersi a questo popolo, anzi si può affermare che la popolazione era, a quei tempi, al 50% formata da genovesi mentre l’altra metà era tedesca. Soltanto nel 772, con l’arrivo di Carlo Magno e la conquista della capitale Pavia, Genova cambiò padroni divenendo una città del “Sacro Romano Impero”.
Da qui possiamo iniziare a conoscere la lenta gestazione di Genova come capitale del Mediterraneo cristiano a salvaguardia dell’Impero dalla devastante invasione islamica e come punto d’appoggio fondamentale per le future “Crociate”.
Il saccheggio degli arabi e la fondazione della “Compagna”
Molto probabilmente questa è la pagina più tragica per Genova: il saccheggio della città da parte dei musulmani il 26 Agosto 935. Alle prime luci dell’alba, gli arabi arenarono le loro galee sotto San Siro e, mentre tutti i genovesi dormivano, entrarono nelle case, saccheggiandole, uccisero tutti gli uomini e rapirono tutte le donne e le bambine, imbarcandole sulle loro navi. La cattedrale di San Siro e le altre chiese furono profanate e bruciate. Dopo due ore d’inferno gli arabi tornarono alla spiaggia e ripartirono verso altri lidi, ma prima pensarono bene di portarsi via tutte le imbarcazioni genovesi. L’evento risultò devastante per i genovesi che cominciarono a serbare un odio feroce verso i saraceni che potrà essere placato solo sedici anni dopo quando batterono i musulmani riconquistando alcune città della riviera.
Dopo questa tragica giornata la città di Genova ricominciò lentamente a riprendere vita e dieci anni dopo, nel 945, fu costituita una comunità che diventerà importantissima nei secoli a seguire: la “Compagna”. L’ideatore di questa associazione fu il Vescovo Teodolfo, che pensò di dividere i cittadini in due categorie: gli “habitatores”, cioè i nullatenenti che si dovevano occupare della guardia della città, e i “boni homines”, cioè quelle persone abbienti che versando una quota annuale partecipavano alla costruzione della flotta militare. Il Vescovo preparò un vero e proprio statuto che presentò al Re Berengario, che dopo averlo accettato, promulgò, forse perche attirato dal vantaggio di disporre di una flotta a difesa delle invasioni saracene, la “Donatio Berengari”, accettata poi da tutti gli altri Imperatori, che permetteva tra le altre cose di non pagare più gabelle allo stato e di avere una quasi completa indipendenza, tanto da considerare Genova una Repubblica.
Il Vescovo impose ai “boni homines”, che volevano avviare una qualsiasi attività, di iscriversi alla “Compagna”, pena l’esilio. Stessa condanna era commutata a coloro che dichiaravano meno guadagni del dovuto. Siccome in quell’epoca, tutti si chiamavano solo con il nome, pensò, per non creare confusione, di abbinare ad esso un aggiuntivo, derivante soprattutto dal luogo di provenienza o da un aspetto specifico del personaggio, facendo così nascere il cognome.
La città venne divisa in tre Compagne: Castrum, Civitas e Burgus. Ognuna di esse aveva un proprio Console ed un proprio vessillo.
Ma non fu soltanto la costituzione della “Compagna” il grande merito del Vescovo Teodolfo. Infatti, tra le altre cose, impose la ronda notturna sulle mura e realizzò una catena di torri che partivano dai Piani d’Invrea per giungere fino a Porto Venere, per mettere in guardia gli abitanti della repubblica dagli attacchi saraceni. In caso di avvistamento, da una delle torri, veniva acceso un falò che permetteva di essere visto dai luoghi vicini che, al suono delle campane, invitavano le donne, i vecchi e i bambini a rifugiarsi nelle campagne, mentre tutti gli uomini abili si preparavano a combattere.
I primi viaggi in Terra Santa partirono da Genova
Agli albori del secondo millenio, per i ricchi europei, cristiani cattolici, il massimo delle aspirazioni era raggiungere la Terra Santa, profanata dai fanatici seguaci di Maometto. Nessun porto, allora, era più indicato di quello genovese per organizzare viaggi verso quei lidi. Sappiamo, grazie al Caffaro, l’unico reporter genovese dell’epoca, che esisteva una nave destinata a queste particolari crociere che si chiamava “Pomella”, e che si suppone fosse di proprietà degli Embriaci, in quel periodo famiglia più importante e ricca della città.
La nave partiva da Genova nei primi giorni di aprile e ci metteva alcuni mesi per raggiungere Giaffa, dove sostava, in attesa dei pellegrini, fino al primo settembre, quando ripartiva per il capoluogo ligure. Il luogo che ospitava questi pellegrini prima della partenza o all’arrivo era la “Commenda” di Prè.
Proprio in quegli anni, la nostra città cominciava a far valere un acceso antagonismo marittimo con Pisa, che nel Medio Evo era molto più grande di Genova. Tutte e due le città possedevano una flotta ed entrambe avevano sopportato l’onta del saccheggio saraceno. Così, pur odiandosi nell’ombra, si allearono per combattere la minaccia islamica e in un’epica battaglia, nei pressi di Luni, annientarono la flotta islamica, costringendo il loro capo Mugahid, a fuggire in Sardegna, dove fu raggiunto dalle navi alleate. Gli uomini appena sbarcati si diedero al saccheggio della città di Cagliari. Molto probabilmente, il bottino più grosso lo fece l’Embriaco, nonno del celebre Guglielmo che incontreremo più avanti, al comando della flotta genovese, che riportò questo tesoro in città per costruire quella che ancora oggi è la Cattedrale: San Lorenzo. Ma questo non accadde subito, forse per colpa di qualche malinteso tra l’Embriaco e il clero, e con quell’oro venne costruita un’altra chiesa, ancor oggi famosa: l’Abbazia di San Siro.
I Crociati chiedono l’aiuto dei genovesi
Qualche anno prima del 1100, Genova era una città molto povera, che riusciva a stento a mantenere i suoi traffici marittimi e con la popolazione ai limiti della sopravvivenza. Ma in una calda giornata dell’estate 1097, le sorti della nostra città cominciano ad essere meno grame: è l’inizio di “Genova nei secoli d’oro”.
Fu, infatti, nel Luglio di quell’anno che la “Compagna” chiamò a raccolta tutti i genovesi presenti nel borgo. Erano arrivati due Vescovi francesi, inviati dal Papa Urbano II, che chiedevano l’aiuto, con l’invio di viveri e volontari, per l’armata dei crociati che versava in gravi difficoltà in Terra Santa. La fame rischiava di decimare l’esercito più delle battaglie. Si dovevano raccogliere provviste alimentari e servivano marinai e vogatori, tutti volontari e non remunerati. Guglielmo Embriaco, console del “Castrum”, forse il più autorevole cittadino dell’epoca, chiese ai presenti di giurare fedeltà all’impegno e tutti furono felici di farlo. Si riuscì in poco tempo ad organizzare la prima spedizione e i Vescovi tornarono in Francia, felici dell’accordo, dando appuntamento ai genovesi al porto di San Simeone, vicino ad Antiochia. In poche settimane si riuscì a riempire una salanda, l’imbarcazione da carico di quei tempi, di derrate alimentari. La gente si privava di qualsiasi bene e lo portava al Mandraccio per essere caricato sulla nave che doveva partire per la Terra Santa. I magazzini (fondaci) di Sottoripa erano stracolmi di merce pronta per essere stivata.
Quando tutto fu preparato, il 24 luglio 1097, la flotta, composta da dodici galee e dalla nave da carico, salpò verso la Terra Santa. I marinai genovesi erano circa quattromila, cioè tutti gli uomini abili disponibili della repubblica. La nave ammiraglia era la “Grifona”, comandata da Guglielmo Embriaco. Il viaggio cominciava costeggiando le rive tirreniche per attendere l’arrivo delle altre flotte delle Repubbliche Marinare, cioè Pisa e Amalfi, ma chissà per quali motivi sia i pisani che gli amalfitani non si aggregarono, lasciando i genovesi da soli. Anche i veneziani, contattati dai Vescovi francesi, trovarono qualche scusa e rinunciarono a dare il loro aiuto ai crociati.
Così, i genovesi cominciarono in perfetta solitudine quell’avventura ed arrivarono nel porto di San Simeone, nel Novembre del 1097. Qui furono festeggiati dal contingente rimasto sulla costa e, subito, furono inviati dei messaggeri per informare le truppe crociate che stavano assediando Antiochia. Questi saputa la notizia dell’arrivo dei viveri abbandonarono gli accampamenti e, di conseguenza, l’assedio, per raggiungere la nave genovese. Molti turchi riuscirono a fuggire da Antiochia, nascondendosi nella città di Solino. L’Embriaco per agevolare il trasporto dei viveri verso Antiochia, dispose una colonna di 600 uomini che dovevano portare i sacchetti con gli alimenti. Purtroppo, per giungere ad Antiochia, dovevano passare da Solino, dove furono attaccati dai turchi e barbarmente massacrati. Quando la notizia giunse nel porto dove la flotta genovese aveva attraccato, i compagni dei martiri partirono inferociti verso la città dove era avvenuto l’agguato. Era talmente grande la rabbia che dopo aver violato le mura, i genovesi, abbatterrono a calci e pugni le porte e trucidarono selvaggiamente tutti i turchi. Qualche anno dopo Solino sarà donata come colonia ai genovesi.
Guglielmo Embriaco, l’artefice delle prime fortune genovesi
Come abbiamo visto nelle pagine precedenti, la figura più importante tra i genovesi dell’epoca era Guglielmo Embriaco, non solo perchè console del “Castrum”, ma anche per altri motivi che adesso scopriremo. Innanzitutto, fu lui a promuovere le prime spedizioni in Terra Santa a sostegno dei Crociati e, grazie alle sue conoscenze in alto loco, primo fra tutti Goffredo da Buglione, permise alla città di Genova di divenire la prima potenza commerciale nel Mediterraneo. Tramite concessioni imperiali e colonie donate per i servigi offerti, Genova iniziava ad essere conosciuta in tutto il mondo. Infatti, nel 1102, anno di costituzione del “Comune” (con Guglielmo primo Console Communis), la città era un cantiere in fermento: venivano costruite nuove abitazioni, edificate chiese e il porto che solo quattro anni prima languiva nell’incertezza del futuro era costretto ad allargare i moli spostandosi sempre più a ponente.
Anche l’Embriaco decise di migliorare la propria casa, innalzando la Torre per farla diventare la più alta della città.
Ma Guglielmo aveva molte risorse e non si faceva apprezzare soltanto per la sua bravura politica e marinaresca. Le sue capacità spaziavano anche nell’arte militare e due sue invenzioni fecero la fortuna di molti comandanti crociati. Si presume che sia stato lui a migliorare una delle armi più temibili del Medio Evo: la balestra. Difatti, celebri erano i “balestrieri del Mandraccio” che venivano richiesti sia nelle battaglie a terra che in quelle navali. Di sicuro è sua l’invenzione della “Torre mobile”, un’alta costruzione in legno rivestita di cuoio, che veniva avvicinata alle mura delle città assediate, per permettere ai balestrieri nascosti al suo interno di scaricare le frecce delle balestre verso il nemico asseragliato. Quest’arma segreta fu determinante per la conquista di Gerusalemme. Siccome, si stavano progettando altre spedizioni in Terra Santa, l’Embriaco, dimostrando, anche le sue grandi capacità diplomatiche e persuasive, riuscì a convincere anche i cittadini rivieraschi ad offrirsi volontari per queste avventure. Ci riuscì, grazie al Vescovo Airaldo, aumentando di circa tremila uomini la sua flotta. La maggior parte di questi furono impiegati come vogatori, il lavoro più duro sulla nave, ma molti furono ripagati di questi sacrifici perchè ad essi furono concesse le terre che i musulmani abbandonavano all’avanzare dei Crociati.
Tornando alla nostra storia, chiudiamo questa pagina con uno dei momenti più importanti della storia medievale: la conquista di Gerusalemme. All’alba del 15 luglio 1099, la torre mobile ideata da Guglielmo Embriaco fu avvicinata alle mura; i soldati musulmani, i temibili Mamluk (da qui il termine “mamelucchi”, dispregiativo usato ancor oggi dai genovesi) cominciarono a scagliare frecce incendiarie contro le pareti di cuoio della torre, concentrandosi quasi tutti contro di essa. I balestrieri genovesi al coperto nella torre iniziarono a lanciare le loro frecce sterminando gli avversari. Quando i mamluk furono tutti uccisi, l’Embriaco sventolò il vessillo col Grifone, segnalando a Goffredo di Buglione il via libera. Questi, con i suoi uomini, salì le scale appoggiate alle mura e penetrato nella città fece abbassare il ponte levatoio, mettendo per primo il piede a Gerusalemme, finalmente conquistata.
Genova dopo gli anni delle prime Crociate
Dopo tanta miseria Genova, finalmente, scopriva la ricchezza portata da tutte quelle attività che si erano sviluppate dopo le prime Crociate. Naturalmente, questa nuova agiatezza aveva portato un po’ di benessere al popolo e molta agiatezza ai “boni homines”, ma anche tanti problemi di non facile soluzione. Ecco cosa accadde in quel periodo, secondo Vittorio Giunciglio nel suo libro “I sette anni che cambiarono Genova”: “Con la gloria delle spedizioni in Terra Santa e con la ricchezza che queste avevano portato, Guglielmo Embriaco ed il vescovo Airaldo, si trovarono a dover risolvere tre grossi problemi, causati dal raddoppio della popolazione, e cioè: quelli dell’acqua, del grano e della costruzione di un molo in porto. Per fortuna i soldi non mancavano, la cassaforte della Compagna Communis era piena. Per il grano, fu consigliata dal Vescovo l’espansione oltre Appennino, nel territorio diocesano genovese. Fu scelta la zona lungo la via Postumia. Perciò furono incorporati prima i paesi di Vultabbio (Voltaggio), Palodio (Parodi Ligure), Gavi e Libarna (Serravalle Scrivia). Per il porto fu decisa la costruzione di un molo a partire dal Mandraccio e parallelo alla Ripa Maris. Gettando grosse pietre, per oltre cento metri fu creata una massicciata per difendere Sottoripa dalle mareggiate del libeccio. Questo è il vento che soffia da sudovest e non essendoci ostacoli, provocava allora grosse ondate provenienti dalla Lanterna, che si riversavano sul Mandraccio. Nessuno in porto lavorava in occasione di “libecciate”. I mariti potevano tornare a casa anzitempo e giustificati potevano fare altre cose… altrimenti all’epoca, chi non lavorava, trovava il piatto girato dall’altra parte! Questo primo molo fu chiamato in seguito “molo vecchio”. Alla radice del molo fu eretta la prima dogana d’Italia. Fu chiamata così perché doveva tassare le merci “coloniali” provenienti dal mondo arabo. Infatti “dogana” deriva da “diwan” che in arabo significa “registro”. Le gabelle venivano divise in due: metà al Comune e metà alla Chiesa di San Lorenzo.
Siccome in quel punto era ubicato questo misterioso edificio, chiamato poi la “casa del boia”, si ritiene che proprio questa fu la prima sede della dogana, spostata poi nel 1270 a palazzo San Giorgio. Questo edificio fu costruito dai benedettini prima di salpare per la Terra Santa, così come la facciata di San Lorenzo e torre Embriaci. Essi costruirono pure la Chiesa di San Giovanni Battista a Gihello, colonia genovese. La Chiesa è tuttora funzionante in Libano, come parrocchia cristiano – maronita. La «casa del boia” è stata spostata anni fa in piazza Cavour, numerando ogni pietra, per lasciar passare la rampa discendente della Sopraelevata.
Per quanto riguarda l’acqua fu decisa una derivazione per il Burgus a partire da Piazza Manin, Circonvallazione, Castelletto, Piazza Nunziata, Porta Sottana, Piazza Caricamento. Qui bisogna aprire una parentesi, riguardo l’antico acquedotto proveniente da Prato, che a mezza costa raggiungeva Piazza Manin dopo circa 24 chilometri per andare giù fino al Mandraccio. Il nostro Comune ritiene che sia stato fatto dai genovesi a partire dal 1100 circa, non conoscendosi la storia anteriore al 935, quando furono bruciati dai saraceni i documenti storici della città.
Fortunatamente dagli « Annales » del famoso storico Tito Livio, sappiamo quanto successe a Genova prima del 200 a.C., quando Annibale valicò le Alpi con gli elefanti e si accampò sul Trebbia. Genova ospitava allora la flotta navale romana comandata da Cornelio Scipione, mentre Savona quella cartaginese di Magone (fratello di Annibale). Magone saputo della partenza delle navi romane, venne a Genova una mattina del 205 a.C., distruggendo e bruciando tutte le case della città, che allora andavano dal Mandraccio a Sarzano. Tutto il bottino razziato fu portato a Savona, alleata allora dei Cartaginesi. I genovesi fortunatamente riuscirono a fuggire. Quando tornarono, al vedere lo scempio delle loro case, venne loro il cosiddetto “magone”. Espressione usata tuttora in dialetto, per definire grossi dispiaceri. Quando il Senato romano venne a conoscenza del fatto, con commozione e gratitudine proclamò i genovesi soci dei romani, varando subito provvedimenti per la ricostruzione della città. Inviò il pretore Spurio Lucrezio con due legioni di soldati e con pieni poteri. Egli era anche ingegnere del genio militare. Per prima cosa eresse un muro di cinta, a fianco di un lungo fossato di canne che partiva da “Porta Superana” fino ad un altro canneto, più corto, perpendicolare allo stesso. Nacquero così le denominazioni di “Canneto il Lungo” e “il Curto”, arrivate miracolosamente fino ad oggi, tali e quali.
Spurio Lucrezio edificò sul colle di Sarzano il solito Oppidum romano, che comprendeva gli alloggi per i legionari, mense, magazzini vari ed infine l’immancabile Castrum per la Pretura, prima sede del governo cittadino. Il castello era ubicato, dove ora ci sono i ruderi dell’ex Chiesa di S. Maria in Passione. Dopo aver ricostruito anche le case, chiamò la piccola città “Janua”, che in latino vuol dire “porta di casa”. Ciò significa che per un romano allora, trovarsi a Genova era come essere a casa propria.”
La cattedrale di San Lorenzo
Non esistono notizie certe sulla nascita dell’imponente cattedrale genovese, anche se alcune testimonianze dell’epoca fanno risalire al 1100 l’anno che furono finiti la facciata e i portali. Sembra che ad architettarla e costruirla siano stati dei benedettini giunti da Cluny, allievi del celebre Guglielmo da Volpiano. Lo stile di questa chiesa ricorda molte altre costruite in Francia in quel periodo, ma differenzia da queste per una particolarità: ha solo una torre campanaria.
Secondo Vittorio Giunciuglio, nel suo libro “I sette anni che cambiarono Genova”, anche questo è dovuto ad un motivo ben preciso. I sovrani francesi avevano un enorme rispetto per il papato, a differenza di quelli tedeschi che pretendevano di avere la priorità anche sulle decisioni religiose. Genova apparteneva all’Impero Romano di Enrico IV, sovrano di origine germanica, e quindi la costruzione di un solo campanile sta a significare che “la Cattedrale fu eretta grazie al solo potere religioso, senza quello laico”. Sembra, addirittura, vista la velocità con la quale la costruzione è stata portata a termine, che l’iniziale destinazione della facciata della chiesa non sia stata Genova, ma una città francese. Il cambiamento fu dovuto al fatto che l’abate Hughes, priore di Cluny, allora maggior consigliere papale, decise di ricompensare Genova per i favori offerti al clero con la sua attività marinaresca. Ma anche sulla provenienza delle colonne della cattedrale non si hanno notizie certe, così come sulla costruzione e il significato di varie sculture poste sulla facciata e sugli angoli dell’edificio.
Federico Barbarossa terrore e speranza per i genovesi
Tra una guerra e l’altra con Pisa e la perdita più importante tra le colonie, quella di Gerusalemme, Genova, nella seconda metà dell’anno 1100, fece conoscenza con uno dei personaggi più importanti del Medio Evo: Federico I Hoenstaufen, detto “il Barbarossa”.
Cominciamo con un po’ di storia. Federico divenne Imperatore e quindi re d’Italia nel 1152 alla morte dello zio Corrado II, che allora era il regnante. Dopo avere risolto alcuni problemi in Austria, il Barbarossa scese in Italia, dal Brennero, il 2 ottobre 1154. Appena giunto convocò un parlamento a Roncaglia per avvisare tutti i Comuni italiani che non accettava insubordinazioni e per riprendere possesso del potere Imperiale, trascurato dallo zio Corrado. Anche i genovesi mandarono dei loro delegati al Consiglio e rispetto ad altre delegazioni furono accolti con simpatia dall’Imperatore, che, addirittura, fu prodigo di buone parole per la partecipazione di Genova alle Crociate, dove, come sappiamo, avevano portato viveri e volontari. Sembra che, in un colloquio segreto, il Barbarossa promise ai genovesi il monopolio del commercio siciliano, in cambio dell’aiuto della flotta per conquistare l’isola, poiché Guglielmo, il Re normanno, rifiutava di sottomettersi! Tornati a Genova, gli ambasciatori riferirono ciò ai Consoli, i quali accettarono con entusiasmo la proposta del Barbarossa, considerando anche i guai che sarebbero sorti, se questa proposta fosse stata fatta ai pisani! Sarebbe stata la fine di Genova!
Ma cosa c’era in Sicilia di così prezioso? C’erano le saline e per i pisani il traffico del sale dava un introito di circa il venti per cento alle casse della città toscana. Per questo motivo Amalfi era stata distrutta dai pisani! L’isola aveva quattro miniere d’oro, rappresentate dalle saline di Augusta, Siracusa Marsala e Trapani. A quel tempo il sale valeva quanto l’oro. Per chiudere il discorso sulle saline, nel 1194 i genovesi cacciarono i pisani dalla Sicilia, ottenendo il monopolio da Enrico VI, Imperatore dei romani, finchè nel 1251 arrivarono i francesi.
Tornando alla dieta di Roncaglia, tutti i Comuni furono aboliti e sostituiti da un Podestà di nomina Imperiale, escludendo Genova e Pisa, per le precedenti autonomie concesse dai sovrani tedeschi. Per dare un esempio alle città più grandi,il Barbarossa assediò e rase al suolo per rappresaglia Tortona!
Nel frattempo, a Genova accade un fatto strano. Il 5 ottobre 1155, arrivò una nave da Bisanzio con a bordo Demetrio Metropolites, ambasciatore dell’Imperatore di Costantinopoli Emanuele Comneno, per riprendere le relazioni diplomatiche dopo 57 anni, interrotte dopo la rottura del patto di Costantinopoli, avvenuta nel giugno 1098. Questa visita ebbe una ripercussione gravissima sulle relazioni future dei genovesi, fino allora sempre uniti nelle decisioni sulla politica estera. A causa delle proposte che farà il Metropolita greco – ortodosso, la Compagna e la città si divideranno in due fazioni contrapposte, con odio tremendo e tafferugli persino in Parlamento!
Perchè accade questo? Il nuovo Imperatore Emanuele Comneno, per ripristinare le relazioni amichevoli, faceva grosse concessioni per i genovesi.. come inizio dava addirittura un quartiere, con scalo, a Costantinopoli! Era una proposta più che allettante, entusiasmante! Si aprivano per la città enormi sbocchi commerciali con l’Impero bizantino, senza neanche bisogno di fare guerre!
Però c’era un guaio grosso! La città faceva parte dell’Impero Romano. I Consoli avevano giurato fedeltà all’Impero. Il Barbarossa non avrebbe di certo gradito il tradimento! Cosa fecero allora i genovesi? Lo vedremo nel prossimo capitolo.
I genovesi cambiano idea e “le mura del Barbarossa”
Molti tra i componenti della “Compagna”, pensavano che fosse un buon affare mettersi in società con Emanuele Comneno, ma sapevano che era molto rischioso mettersi contro il Barbarossa. Il metropolita, però, aveva pensato a tutto, anticipando una forte somma di denaro ai genovesi perchè costruissero delle mura per difendersi dall’inevitabile rappresaglia dell’Imperatore.
All’inizio del 1156, cominciarono i lavori di costruzione delle mura, partendo dalla Porta Sottana, l’attuale Porta di Vacca.
I genovesi spronati dall’Arcivescovo Siro, terminarono le mura in poco meno di due mesi. Ma queste trame giunsero all’orecchio dell’Imperatore che convocò i consoli genovesi nel castello di Bosco Marengo, per ricordargli l’antica alleanza e, soprattutto, l’indipendenza che Genova aveva mantenuto in tutti quegli anni grazie alle donazioni dei suoi predecessori. Ma Federico, oltre ad essere un grande regnante, era anche un abile affarista e sapeva che i genovesi gli sarebbero stati utili anche a scopi commerciali, soprattutto per quanto riguardava il mercato più importante di allora, quello del sale. La proposta che fece fu un colpo per i consoli genovesi, che subito annusarono il grosso “business”. Infatti, ad un tratto del convivio, l’Imperatore chiese: “Ve la sentireste di portare il sale a Lubecca, senza dover passare dai varchi appenninici?”. L’affare andò immediatamente in porto. I genovesi con le loro navi mercantili cominciarono a portare il sale di Aigues-Mortes a Lubecca, con viaggi che duravano ben quattro mesi.
I pisani, saputo del clamoroso accordo, cominciarono a tramare contro Genova, proponendo all’Imperatore di distruggere la città ligure, colpevole a loro dire, di essere una città propensa al tradimento, che aveva fatto costruire mura con i soldi dei bizantini. Inoltre, Pisa, vista l’indecisone dei consoli genovesi era riuscita a conquistare la Sicilia per Federico, ottenendo la stessa indipendenza e gli stessi vantaggi di Genova.
Ma Federico, invece di distruggere la città, chiamò i consoli genovesi avvisandoli del comportamento dei pisani. La tiepida tregua tra le due città di mare, da quel momento, terminò.
La visita della famiglia Imperiale e la conquista della Sicilia
I primi giorni di febbraio del 1178 giunse a Genova, da sola, la moglie dell’Imperatore, Beatrice, portando con sé un dono per la città di Genova, che consisteva in uno scrigno d’argento di enorme valore: la celebre “Arca del Barbarossa”. Il marito, Federico, giunse solo il giorno dopo ed entrambi si recarono in San Lorenzo per rendere omaggio alle ceneri di San Giovanni Battista. La città festeggiò l’evento, ma il culmine delle feste doveva ancora arrivare.
Il 5 febbraio, l’intera Genova era assiepata in vicinanza di Porta Soprana stava arrivando il futuro Imperatore, un giovinetto biondo di soli tredici anni: Enrico VI.
Questa visita del Barbarossa doveva avere un particolare significato per i genovesi, soprattutto per il fatto che veniva accompagnato dal figlio, come a dire: “Non preoccupatevi, alla mia morte i vostri privilegi continueranno e sarete sempre visti con occhio di riguardo anche dai futuri Imperatori.” Infatti, alla morte di Federico, avvenuta nell’Agosto del 1190, gli successe sul trono il giovane Enrico, che si dimostrò, almeno per i genovesi, un ottimo Imperatore.
Prima di parlare del nuovo sovrano, facciamo una piccola parentesi curiosa sulla morte di Federico I di Svevia. Quando era giovanissimo, una maga gli aveva predetto che sarebbe morto per annegamento e, allora, il Barbarossa si era sempre rifiutato di salire su qualsiasi imbarcazione. Anche in occasione della III Crociata, aveva compiuto il viaggio via terra seguito dal suo esercito. Sfortuna volle che, guadando il fiume Salef in Anatolia, cadesse dal cavallo, morendo annegato anche a causa della pesante armatura che indossava. Appena arrivato al potere il venticinquenne Enrico VI, riprese il rapporto privilegiato con i genovesi, preparando l’invasione del Regno normanno di Sicilia con l’aiuto della flotta con il vessillo di San Giorgio. Nel 1194, proprio mentre la moglie Costanza dava alla luce il primogenito Federico II, Enrico VI giungeva a Genova accompagnato da tutti i dignitari della sua corte.
Il popolo genovese accorse ancora una volta festoso a Porta Soprana, felice soprattutto di vedere la forza imponente dell’Impero al suo fianco contro gli odiati pisani, che si erano schierati a difesa della Sicilia.
Il 1° Agosto la flotta partì costeggiando tutto il versante tirrenico, facendo attenzione ai possibili attacchi delle galee pisane. Questo non avvenne e la flotta imperiale, tre settimane dopo la partenza, raggiunge il porto di Napoli, dove le truppe conquistarono il Principato di Capua. Nel mese di Settembre le navi genovesi arrivarono nelle acque antistanti Messina dove si trovava la flotta pisana pronta ad accoglierle, non proprio in modo amichevole. La battaglia fu cruenta ed indecisa fino all’ultimo istante, ma alla fine la flotta genovese, comandata dall’ammiraglio Spinola ebbe la meglio.
Poi, nel corso dei mesi seguenti i genovesi continuarono la conquista dell’isola, cominciando da Catania, Siracusa, Marsala, Trapani, per giungere fino a Palermo, dove il giorno di Natale del 1194, Enrico VI fu incoronato Re di Sicilia nel Duomo della città.
Ma non per tutti gli storici Enrico VI fu un buon Imperatore per i genovesi, anzi fu un approfittatore beneficiando della forza navale della città di Genova per poi non concedergli nulla. Ecco cosa si legge negli annali di Ottobono Scriba: «Fingendo di donare pressochè tutto quel regno ai Genovesi, a tutti facea lusinghe, e dalla città, dalle castella e dai casali porgeva agli uomini di Genova larghe le mani e piene di vento; e dei predetti e di altri innuneri favori fece far vani privilegi e inefficaci, e del suo sigillo li fè bollare».
Per altri, e noi seguiamo questa traccia, Genova ebbe solo dei benefici dalla conquista della Sicilia da parte di Enrico VI, perchè fu un buon viatico per il predominio del Tirreno e il completo abbattimento di Pisa, intesa come Repubblica Marinara, che doveva avvenire qualche anno dopo.
Lo sviluppo di San Pier d’Arena e l’avvento di Federico II
Grazie alla conquista della Sicilia, anche San Pier d’Arena, piccolo borgo di pescatori in quell’epoca, comincia a svilupparsi come importante centro. Ecco cosa dice Vittorio Ciunciuglio, nel suo libro “I sette anni che cambiarono Genova”: “Con l’afflusso del commercio siciliano, nel piccolo porto genovese, non si sapeva più dove mettere le navi. I Consoli furono costretti a spostare sulla vasta spiaggia di Sampierdarena il cantiere navale di Pré. Ciò costituì la fortuna del borgo che allora era pressocché disabitato. C’era un gruppo di case di pescatori alla “Coscia” ed una di contadini nel “Fossato” ed al “Campaccio”. Ebbene, a partire dal 1200, Sampierdarena conoscerà una continua espansione industriale e demografica dalla Longobardia che la porterà, sei secoli dopo, a diventare la citta più industrializzata d’Italia, tanto da essere chiamata la Manchester italiana! Tra l’altro, il sale siciliano veniva scaricato nel magazzino sito nel borgo, tanto che dovette essere raddoppiato! Chi mandava più sale di tutti era la famiglia Vento, assegnataria delle saline di Siracusa (tuttora in piazza Caricamento c’è la loro torre) che divenne la famiglia più ricca di Sicilia, seguita dai Lercaro, assegnatari di tutta la valle di Noto, granaio di Sicilia! I Lercaro diventarono i più grossi esportatori di frumento al mondo. Gli Spinola invece, con i proventi siciliani, si compreranno tutta via Luccoli e via San Luca!”
Quindi, anche se involontariamente, Enrico VI servì anche allo sviluppo urbanistico di Genova che cominciava ad allargarsi, per motivi logistici, sia a levante che a ponente. Enrico morì prematuramente il 30 settembre 1197 e anche la moglie Costanza, distrutta dal dolore, si ammalò gravemente, tanto da morire pochi mesi dopo il marito. La donna però si era premunita, affidando le cure del loro piccolo figliolo di quattro anni al Papa, Innocenzo III.
Questo bimbetto, sarà uno dei personaggi più celebri del Medio Evo: Federico II di Svevia. Sembra che il futuro Imperatore sia stato cresciuto ed educato a Palermo in casa del Reggente della Corona, l’ammiraglio genovese Nicola Spinola e dalla moglie Beatrice. Insieme al greco, al latino, al tedesco e al francese, il giovanissimo Federico imparò anche il dialetto genovese. Dopo il matrimonio, imposto dal Papa a soli quattordici anni, Federico arrivò per la prima volta a Genova nel 1208, accolto, come già era accaduto a suo padre, da grandi festeggiamenti.
Ma, a differenza del suo predecessore, il giovane Imperatore non si mostrò per i genovesi un buon sovrano. Infatti quando assunse il papato Sinibaldo Fiesco, con il nome di Innocenzo IV, che con la completa epurazione dei ghibellini dalle alte cariche comunali di Genova, la città divenne guelfa e quindi avversa alla politica imperiale. Federico, giunto ormai alla terza scomunica, si alleò allora con Pisa e Savona organizzando la conquista del capoluogo ligure. Ecco il racconto dell’assedio fatto nel libro di Vittorio Ciunciuglio: “Quando fu informato di aver perso la corona imperiale quale eretico, Federico Il si vendica sul Papa genovese, organizzando la presa della sua città per rappresaglia. Sapendo delle ostilità dei pisani e dei savonesi, offre loro la Liguria come terra di conquista, dopo aver espugnato Genova. La flotta imperiale (composta da 40 galee pisane e 27 siciliane comandata da Ansaldo De Mari, approda sulla spiaggia di Lavagna, per devastare la capitale Fiesca. Tutti i quindici palazzi della casata furono distrutti. Dopo alcuni giorni, la flotta entra nel porto di Genova per bombardare a sassate la palazzata di piazza Caricamento! Sembra che questo raid sia stato fatto per scherno. Intanto i savonesi avevano occupato il colle di San Benigno insieme ad un folto gruppo di genovesi ghibellini. Federico diresse l’assedio stando al Righi, mentre i soldati tedeschi circondarono le alture della città. I pisani erano sotto Porta Soprana. Insomma c’erano tutte le premesse per una facile presa della città. Ma ciò non avvenne. Come mai? Federico non fece i conti con 2.000 osti, rappresentati dai temibili balestrieri del Mandraccio. Gli assedianti non riuscirono mai ad avvicinarsi alle mura, poiché venivano inesorabilmente uccisi dagli infallibili arcieri genovesi. Dopo una settimana di inutili attacchi, l’Imperatore dovette rinunciare all’impresa, per tentare l’assedio di Milano.”
Ma purtroppo per i valorosi arcieri genovesi, accorsi in difesa di Milano, ci sarà una punizione tremenda. Imprigionati dai soldati imperiali, furono portati sulla piazza principale di Milano dove un aguzzino tagliò loro la mano destra e accecò l’occhio destro, perchè erano considerati traditori dell’Impero.
Federico morì nel 1250 e per Genova fu un sollievo. Ma la città non era più quella di prima, la lotta tra guelfi e ghibellini era divenuta acerrima e questo era un grave danno per la prosperità dei genovesi.
La battaglia della Meloria
Di fondamentale interesse nella storia di Genova è la battaglia della Meloria che sancisce la definitiva sconfitta di Pisa e il conseguente predominio marittimo della città ligure. Come sappiamo i rapporti tra genovesi e pisani non erano mai stati idilliaci e non c’era occasione per provocare piccoli scontri che spesso si tramutavano in violente battaglie. Nel 1282, il pretesto arrivò da un certo Simoncello Giudice di Cinarca, un corso battuto dai genovesi nelle acque antistanti l’isola, che dopo la sconfitta si rifugiò a Pisa sostenendo di essere stato attaccato impunemente e senza motivo dalle galee di Genova.
I pisani si prepararono alla battaglia con un odio feroce verso i genovesi, dicendo che “in mare li aveano come femmine e in ogni parte li soperchiavano”.
Anche i genovesi si prepararono alla guerra. A San Pier d’Arena furono allestite cinquanta galee, tutte le navi in navigazione furono allertate per lo stato di guerra e a tutti gli uomini fu ordinato di non lasciare la città. Le battaglie navali cominciarono a susseguirsi a ritmo frenetico: un po’ l’una, un po’ l’altra fazione riusciva a vincere lo scontro, ma nessuna delle due aveva mai il sopravvento.
Ma nel 1284 i pisani cominciarono a subire sonore sconfitte. Le galee genovesi affondavano inesorabilmente quelle avversarie e facevano prigionieri a migliaia. Si dice addirittura che ad un certo punto del conflitto Genova offrisse i prigionieri pisani in cambio di cipolle!
Il 6 agosto 1284, avvenne lo scontro fatale, ecco come lo racconta Michelangelo Dolcino, nel suo libro “Storia di Genova nei secoli”: “I combattimenti furono subito convulsi, sanguinosissimi. I Pisani si batterono con eccezionale accanimento, confidando nella superiorità numerica; ma quando il vigore cominciò ad essere offuscato dalla fatica, emersero dalla Meloria, dal riparo della punta di Montenero, i legni sin’allora risparmiati dello Zaccaria. I Pisani raddoppiarono a quella vista gli sforzi disperati, tuttavia la loro sorte era segnata. Con vero eroismo difesero la galea ammiraglia, ma alla fine l’insegna del Morosini veniva strappata. Dovunque cadaveri, feriti urlanti, vinti dibattentisi nei flutti; e quanti tentavano di inerpicarsi sulle fiancate delle galee, venivano finiti a colpi di remo. Cinquemila persone, fu calcolato, complessivamente persero la vita. Soltanto venti unità pisane si salvarono: quelle che il Conte Ugolino, cogliendo l’ultima possibilità, fece riparare a Pisa. La sconfiffa non poteva essere più completa. Morosini stesso, «turpemente ferito nel volto» – come narrano gli «Annali» – finì prigioniero di Oberto Doria: uno dei novemila che verranno condotti a Genova, assieme a ventinove galee. «E nella battaglia fu anco preso il detto Conte Loto, figlio del Conte Ugolino e tutta la nobiltà di Pisa e i giudici in numero di diciassette (. . . ) così che chi volesse cercare o vedere Pisa l’avrebbe trovata in Genova e non nella città Pisana, come da tutti in Toscana e anco dagli altri si andava dicendo». La battaglia s’era svolta il 6 agosto: il giorno di San Sisto, protettore di Pisa. Quel giorno non si svolse laggiù la celebrazione dell’anniversario di Mehdia; a Genova, in compenso – leggiamo nel Giustiniani – fu ordinato «che si portasse ogni anno ai sei agosto per li rettori della città e per il popolo un pallio di broccato d’oro con l’offerta di cera alla chiesa di San Sisto». Fu quello lo scontro navale più importante del Medio Evo; ma anche, come scrisse Gavotti, il «modello di battaglia differente da ogni altro precedente (. . .) il cui esito era dovuto non piu’ alla sola esplicazione di maggior resistenza o alla superiorità del numero e delle armi, ma anche e più ancora al genio tattico del capitano».
Dunque fu la battaglia della Meloria il punto decisivo a favore dei genovesi nella guerra con Pisa, anche se ancora per molti anni si continuò a guerreggiare nelle acque del Mediterraneo. La pace venne firmata nel 1288, con condizioni durissime per Pisa. La città toscana doveva rinunciare alla Corsica, ai possedimenti in Sardegna, alla colonia di San Giovanni d’Acri e inoltre dovevano versare un’indennità enorme per la quale venne ceduta in garanzia l’isola d’Elba. I pisani però non tennero fede agli impegni presi e decretarono la loro fine obbligando i genovesi ad attaccare la loro città nel 1290. I genovesi via mare arrivarono a Porto Pisano, mentre i loro alleati lucchesi arrivavano via terra: per Pisa fu una tragedia. L’ultimo capitolo della storia di una gloriosa repubblica marinara.
La guerra contro Venezia
Dopo la schiacciante vittoria contro Pisa, rimaneva solo Venezia a contrastare la potenza genovese nel Mediterraneo. Per il mondo occidentale erano molto importanti i traffici verso il Mar Nero, la Persia, il Turkestan, la Cina: il leggendario Catai. Tra Genova e Venezia esisteva una vecchia tregua stipulata nel 1270, ma a partire dal 1291 i rapporti tra le due città marinare cominciarono a non essere più molto buoni. Le ostilità cominciarono comunque due anni dopo, quando sette navi di mercanti genovesi si scontrarono con quattro galee veneziane. Immediatamente da Genova partirono degli ambasciatori per risolvere per vie diplomatiche la questione, ma non fu possibile trovare un accordo e, di conseguenza, cominciò il conflitto.
Iniziarono così le corse agli armamenti e le battaglie navali continuarono a ritmo frenetico. Come già era accaduto con Pisa, le vittorie e le ripicche tra l’una e l’altra fazione, vedevano vincitori e vinti divisi equamente.
Una tappa fondamentale nella guerra contro Venezia è sicuramente la battaglia di Curzola. Questo è il racconto di Michelangelo Dolcino: “L’urto decisivo si ebbe nel settembre del ’98. Nuovo Ammiraglio genovese era Lamba Doria, che sostituiva come Capitano del Popolo il nipote Corrado, andato in Sicilia a guidare la flotta di Federico contro quella di Ruggero di Lauria. Settantotto galee lasciarono il porto nella seconda metà di agosto. Costeggiarono dapprima l’Epiro, poi risalirono l’Adriatico, infestando le coste dalmate: presso Curzola incontrarono le novantotto galee di Andrea Dandolo. Il Doria temporeggiò, per studiare lo schieramento del nemico e il gioco dei venti, tanto che da parte avversaria si pensò a paura, ma alla fine affrontò la battaglia. Era l’alba dell’8 settembre 1298. Lamba si portò dapprima molto vicino alla costa: in tal modo non doveva temere d’essere circondato, ma anche – profittando del vento spirante da terra – potè piombare sui Veneziani. La linea arcuata di questi fu infranta e le navi nostre che avevano operato lo sfondamento, invertita prontamente la rotta, presero in mezzo la parte centrale dello schieramento già scompaginato. Infine l’Ammiraglio genovese scagliò nella lotta quindici galee tenute in disparte sino a quel momento – e ciò ricorda lo stratagemma della Meloria – forse allontanate sin dalla sera precedente. La sconfitta dei Veneziani era disastrosa, per quanto avessero combattuto ai limiti del sublime, come del resto i nostri. «Un figlio dell’ammiraglio genovese venne ucciso mentre valorosamente pugnava, e il padre, quale un romano antico, baciato il cadavere della sua creatura, lo lanciava in mare: perchè quel corpo ingombrava il ponte, e peraltro nessun’altra sepoltura poteva essere più degna. Tra i prigionieri fatti dai Genovesi era lo stesso Ammiraglio vinto: «Andrea Dandolo, non potendo reggere alla vergogna di tale disfatta, battendo del capo contro l’albero della galera che lo conduceva prigioniero, si uccise». I due brani citati sono del Donaver, incline a riprendere tutto ciò che è drammatico ed edificante. In realtà, il primo episodio è definito «affatto insussistente» dal Vitale, mentre per la morte del Dandolo numerose sono le versioni: più probabile che cadesse nella battaglia stessa. Il rovescio veneziano fu veramente di proporzioni maiuscole; ottantaquattro navi perdute, delle quali diciotto condotte a Genova; settemila i caduti – per altri novemila – cui si devono aggiungere i settemilacinquecento prigionieri. «Dei Genovesi non si danno cifre – scrive De Negri – ma si parla di un numero anche maggiore di vittime in una battaglia che ebbe alterne vicende e fu combattuta fino allo stremo». . . La vittoria permetteva comunque a Genova di raggiungere l’apogeo della potenza: «la più ricca e ridottata città – affermava il fiorentino Giovanni Villani- che fosse nelle terre sì dei cristiani che dei saraceni». Tra i prigionieri che avevano raggiunto quelli pisani ancora presenti, uno ve n’era di particolare importanza: messer Marco Polo, autore del celebre “Il Milione”, prima diffusa descrizione dell’Asia e delle civiltà dell’Estremo Oriente.”
Dopo la vittoria di Curzola a Lamba Doria venne donato un palazzo in San Matteo, mentre Venezia, a differenza di quello che aveva fatto Pisa, riprese ad armarsi diventando ancora più agguerrita, visto che era riuscita anche ad allearsi con i guelfi genovesi insediatisi a Monaco. Ci volle l’intervento di Bonifacio VIII per imporre la pace, che venne firmata a Milano nel Maggio del 1299. La pace con Venezia non servì molto ai genovesi, visto che le lotte interne divennero sempre più accese.
Le lotte tra i Guelfi e i Ghibellini
Come tutte le grandi città europee dell’epoca, anche Genova aveva le sue belle gatte da pelare a causa delle continue lotte tra le celebri fazioni politiche di quel tempo: i Guelfi e i Ghibellini.
Ma chi erano i Guelfi e chi i Ghibellini? Ecco come ce li descrive Vittorio Giunciuglio nel suo libro “Un ebreo chiamato Cristoforo Colombo”: “Generalmente, abbiamo una idea vaga su questa tremenda lotta, durata secoli tra papato ed impero, che portò tante guerre e tanti lutti in Europa, senza che ce ne siamo resi del tutto conto. Per capire come veramente si svolsero i fatti, cominciamo dall’inizio. I due termini nacquero in Germania, dopo la morte di Enrico V, imperatore del Sacro Romano Impero, avvenuta nell 1125. Scoppiò una furibonda lotta per la successione, tra il legittimo Corrado II Duca di Svevia (attuale Baviera) con castello a Wibelingen (Ghibellino) ed Enrico, Duca di Sassonia, con castello a Welf (Guelfo), il quale era appoggiato dalla Chiesa. Si formarono così due partiti politici, trasferitisi poi anche in Italia: il partito guelfo favorevole al papato e quello ghibellino all’imperatore, con i due duchi come primi leader. In seguito, a ordire le trame occulte nei secoli furono: il cancelliere della Chiesa (oggi Segretario di Stato) per il papato e l’arcivescovo di Magonza o di Colonia per l’imperatore.”
Quindi ci è facile capire che i Guelfi erano vicini al Papato, cioè favorevoli al potere della Chiesa nel governo delle città stato, mentre i Ghibellini erano sostenitori della causa imperiale. A Genova le maggiori famiglie erano ghibelline (Doria, Spinola, De Mari, Centurione, ecc.), mentre quelle guelfe, pur in numero minore, non erano meno combattive (Fieschi, Grimaldi, Fregoso, ecc.). Durante uno dei vari attacchi compiuti in San Matteo dai Guelfi, il palazzo donato a Lamba Doria dopo la vittoria di Curzola, fu preso a sassate e fortemente danneggiato.
Il primo doge: Simone Boccanegra
Il primo doge a vita della storia di Genova fu Simone Boccanegra, eletto il 24 settembre 1339. Questa storia del governo perpetuo dei dogi è a dir poco incredibile (per non dire “ridicola”), perchè nell’epoca del dogato furono pochi a durare qualche anno e, addirittura, alcuni furono destituiti il giorno stesso della loro elezione. Il Boccanegra fu dunque il primo di questi governanti e per prima cosa escluse i Guelfi da qualsiasi carica pubblica, facendo felici i Ghibellini che avevano appoggiato peraltro la sua carica. Comunque alle famiglie patrizie sia guelfe che ghibelline venne precluso il dogato; così altri casati emergevano (Adorno, Guarco, Fregoso, Montaldo) divenendo la nuova classe dominante, chiamati “Cappellazzi”, ancora più violenti e insaziabili degli aristocratici che avevano sino ad allora lottato per il predominio della città.
I «popolari» – osservò De Negri – «non sanno liberarsi da una naturale e radicata deferenza verso la nobiltà (che del resto è anch’essa in certa misura di estrazione mercantile e borghese), insomma, sembra che il popolo al governo soffra di un certo complesso di inferiorita nei confronti di quei nobili stessi che essi hanno imperiosamente bandito dalle cariche piu’ rappresentative del governo, ma che quasi sollecitano a collaborare con la loro esperienza, per una superiore «carità di patria».
Proprio in questo ambiente pieno d’intrighi e con le casse dello stato disastrate, cominciò a muovere i primi passi di Doge il Boccanegra, che rischiò di restare in carica poco più di due mesi, visto che qualcuno aveva già pensato di ucciderlo. Ecco come ci racconta i fatti Michelangelo Dolcino: “In effetti si corse il rischio di dover scegliere un altro Doge decisamente presto. Appena il 19 dicembre 1339 un abitante di Voltri, arrestato, confessò di aver ricevuto da un nobile l’incarico di uccidere Simone, dietro promessa di una congrua somma: il giorno seguente la sua testa si separava dal busto. Il 5 settembre 1340, poi, veniva scoperta una vera e propria congiura. Un macellaio di Soziglia, un commerciante di granaglie, vari nobili e anche popolari furono arrestati dietro fondati sospetti: poco dopo si aggiunsero a questi due nobili ghibellini, i quali finirono per confessare – magari con irresistibili sistemi – che per loro cura la città avrebbe dovuto sollevarsi. Anche questi due cedettero il capo al boia, e con essi il macellaio e il commerciante; a buon conto il Doge si costituì una speciale guardia del corpo di centrotre cavalieri pisani.” Sembra il minimo che potesse fare per salvaguardare la propria incolumità.
A questo punto, è d’obbligo fare una piccola parentesi per provare ad immaginare quello che doveva accadere a Genova in quegli anni, lungo le strade e i vicoli che ancora oggi si possono percorrere nella nostra città. Provate, almeno chi ha un po’ di conoscenza di Genova, a vedere manipoli di uomini che si rincorrono a spade sguainate giù per via Luccoli, altri che si battono in duello ai Macelli di Soziglia, bambini che si nascondono negli anfratti dei “caruggi” della Maddalena, dame piangenti sul sagrato di San Lorenzo e nobili circondati dalle guardie mentre chiacchierano in San Matteo. Ebbene, forse Genova è una delle poche città del mondo dove si possono rivivere momenti di storia medievale perchè il suo centro storico ha mantenuto quasi intatta la sua toponomastica, peccato che lo scempio del passato e il continuo espandersi della malavita in quelle zone ne abbiano fatto un luogo per disadattati e non per coloro che amano la storia e la cultura.
Ma dopo queste disgressioni, torniamo alla nostra storia. L’attività del Boccanegra fu comunque ragguardevole: ricucì i rapporti con le grandi potenze, cioè con il regno di Napoli, con quello di Sicilia e con la Chiesa. L’aspetto negativo del suo dogato fu l’amore per lo sfarzo e l’accusa di nepotismo mossagli da molti. D’altra parte, visti i nemici che lo circondavano, non poteva che attorniarsi di persone fidate e, di conseguenza, a queste affidava le cariche più importanti. Durante il suo dogato le Riviere furono completamente assoggettate, a parte Monaco e Ventimiglia in mano ai Grimaldi, e la presenza genovese si fece sentire anche in terra iberica, dove le galee di Boccanegra salvarono i sudditi di Alfonso XI di Castiglia dai Saraceni. Ma, intanto, i nobili genovesi continuavano a tramare alle sue spalle fino a costringerlo a dimettersi dall’incarico. Ecco, ancora il racconto di Dolcino: “Il 23 dicembre 1344 il primo Doge convocò il popolo nella piazza di San Lorenzo e solennemente depose le insegne dogali. Già il giorno seguente – la vigilia di Natale – s’imbarcava alla volta di Pisa. Là il fratello Nicolò era Capitano del Popolo, e pisana era la madre, Ginevra dei Conti di Rezenasco. Una moltitudine muta assistè alla partenza; soltanto quando affrontò la passerella – asserisce il Serra – si udì qualche fischio sporadico.”
L’ultima grande guerra contro Venezia
Dopo Curzola, le scaramucce in mare tra genovesi e veneziani non erano mai cessate, anche perchè gli interessi economici che le due Repubbliche avevano nel Mediterraneo erano enormi e nessuna delle due voleva cedere lo scettro del potere all’altra.
Iniziamo la storia dell’ultimo conflitto nel periodo del dogato di Nicolò Guarco, succeduto ad Antoniotto Adorno (uno dei celebri Dogi durati un solo giorno). Il Guarco nominò Luciano Doria Ammiraglio e questi con una flotta composta da ventidue galee fece rotta verso l’Adriatico. Dopo aver passato l’inverno ad osservare il nemico, rischiando di far morire di fame gli equipaggi, con l’arrivo della buona stagione il Doria dispose la sua flotta di fronte a Pola, come ad invitare gli avversari ad uscire in mare aperto. Poi, con la solita tecnica già usata alla Meloria e a Curzola, nascose alcune navi dietro il promontorio della città istriana, mentre le altre prendevano il largo come per sfuggire all’avversario. Il comandante veneziano, Vettor Pisani, cadde nel tranello mandando le sue galee all’inseguimento di quelle genovesi. Quando i legni veneziani si trovarono in mare aperto le navi genovesi fecero dietro-front e quelle nascoste si posero dietro alla flotta veneziana. Fu uno scontro terrificante con perdite da entrambe le parti, ma la vittoria fu degli astuti genovesi. «E’ la vittoria di Luciano Doria. – scrisse Pescio – L’ammiraglio, all’arrembaggio, vibra con la scure rossa gli ultimi colpi tremendi. Delle navi veneziane, unica, resiste ancora quella di Donato Zeno, che ha per anima il dolore e il valore di Vettor Pisani. E’ questa superba, che vuole vinta, il Genovese! Con la sua nave l’abborda, l’investe, la tempesta di colpi, rovinandola, insanguinandola tutta. Oramai non potra più resistere. Con trepida mano, l’eroe alza la visiera e mostra alla sua gente il maschio viso trasfigurato. – San Zorzo! Vittoria! Vittoria!. . . – Un nuovo grido si spegne gorgogliando nel sangue. Luciano Doria cade colla bocca squarciata. Una spada brilla di gioia e va sollecita a cercargli il cuore: la spada di Donato Zeno!”
L’eco della vittoria giunse a Genova pochi giorni dopo; purtroppo la gioia fu affievolita dalla notizia della morte del valoroso ammiraglio. La flotta fu affidata a Pietro Doria che riuscì a vincere altre battaglie contro i veneziani, ma la fase favorevole ai genovesi stava per concludersi. Il naviglio genovese era ormai da tempo stabile nelle acque prospicienti Venezia, avendo conquistato Chioggia, ma questo a lungo andare invece di essere un vantaggio si dimostrò uno svantaggio, tanto da far divenire i genovesi da assedianti ad assediati. Infatti a Chioggia le navi liguri si videro strette nella morsa della flotta veneziana. Lo stesso Ammiraglio Pietro Doria vi trovò la morte colpito da una palla lanciata da una bocca da fuoco, una delle prime utilizzate in Italia. L’assedio durò più di sei mesi e provoco altissime perdite: i genovesi nascosti a Chioggia chiesero di scendere a patti con i veneziani, che accettarono esigendo però la resa incondizionata dei quattromila genovesi, che finirono prigionieri. I veneziani cacciarono tutte le navi liguri dall’Adriatico, spingendosi anche nel Mar Tirreno per far capire la loro forza. Dopo tanti anni la pace fu firmata il 23 agosto 1380.
Ecco cosa dice il Vitale: “Genova esce dalla grande prova senza danno immediato, ma agisce contro il suo stesso interesse. La minacciosa avanzata dei Turchi, infatti, mette in pericolo non soltanto l’Impero Bizantino, ridotto a ben poca cosa, ma anche le colonie: invano qualche spirito piu’ accorto avverte che è pericolosa illusione fidarsi dei momentanei accordi con l’invasore, e che il vero interesse della Genova d’oltre mare è nell’esistenza e nella prosperità dell’Impero di Costantinopoli”
E questa è invece la testimonianza di De Negri: “Comunque, la lotta per la supremazia mediterranea tra Genova e Venezia non doveva più rinnovarsi: non perchè le due contendenti siano capaci di una generosa rinuncia, ma perchè verrà meno l’oggetto stesso della contesa (. . .) Col che non saranno peraltro finite le due Repubbliche rimaste sulla breccia; perchè Venezia avrà allora già incominciato la sua nuova missione di potenza territoriale italiana (. . .); mentre Genova cui, per ragioni geo-topografiche che già conosciamo, è preclusa la possibilità di costituirsi un dominio di terra ferma più profondo e più solido, (. . .) guarderà l’Occidente con le sue tradizionali e solide energie mercantili e marinare, non meno intensificando e rinnovando la sua penetrazione economica-finanziaria nel cuore stesso delle grandi potenze dell’Occidente europeo”.
Arrivano i francesi
Come abbiamo già avuto modo di vedere in uno dei precedenti capitoli, i “capellazzi”, cioè i nuovi signori della città, borghesi che avevano preso il posto delle famiglie aristocratiche nella conduzione del dogato, erano continuamente in lotta tra loro per prendere il potere. Tutto questo, naturalmente, andava a discapito di una stabilità politica che permettesse a Genova di mantenere quella indipendenza dagli stati sovrani che aveva conquistato fino dai tempi di Federico I di Svevia e delle prime Crociate.
Accadde, quindi, che, nel 1395, a causa delle diatribe tra le famiglie Montaldo e Adorno ci fu la prima vera interferenza straniera su Genova, che aveva sempre avuto uno stato sovrano alle spalle, senza mai diventarne succube. Dicevamo, comunque, che queste due famiglie si rivolsero agli stranieri per risolvere i loro giochi di potere: i Montaldo chiesero aiuto ai Signori di Milano, mentre gli Adorno si rivolsero alla Francia.
“Sarebbe però errato – come ha scritto De Negri – voler ridurre il fatto del primo reale asservimento di Genova a una potenza straniera al gesto inconsulto di un infido «tiranno» (. .) L‘accidens del dominio francese, anzichè sabaudo o visconteo o di chicchessia, come vedremo, è il frutto delle circostanze contingenti (. . .) A lui spetta il merito, o il demerito, di una scelta tra i pretendenti – che sono già alle porte al «protettorato» della Repubblica”.
Comunque se la colpa dell’avvento francese non fu dell’Adorno che li chiamò in aiuto, si sa, di certo, che il 4 Novembre 1396 veniva firmato un trattato nel quale veniva garantita a Genova l’integrità territoriale, il precedente ordine costituzionale, la libertà religiosa ed altri piccoli diritti, ma, di fatto, accadeva una cosa terribile per il popolo genovese: lo stendardo di Francia veniva issato su Palazzo Ducale.
Il 18 marzo 1397 arrivava il prima vero Governatore francese: Vallerano di Lussemburgo, Conte di Saint Pol (nell’immagine qui a fianco), che rinunciò ben presto alla carica per paura della peste. Gli successero i suoi luogotenenti che, però, non riuscirono a riportare l’ordine tra i genovesi. Le lotte tra guelfi e ghibellini e tra nobili e “capellazzi” non volevano acquietarsi ed ogni giorno i ciotoli dei vicoli erano insudiciati dal sangue dei duellanti. Ma sul finire del 1401, giunse in città il nuovo Governatore Jean Le Mangre Boucicault, chiamato subito dai genovesi “Bucicaldo”. Si dimostrò subito capace ed energico, ma vediamo come racconta la sua storia Michelangelo Dolcino: “Maresciallo di Francia, gran Conestabile dell’Impero d’Oriente, fu detto l’ultimo dei grandi paladini medievali. S’era distinto nella difesa di Costantinopoli dai Turchi, ma prima ancora combattendo nella Prussia Orientale i Tartari di Russia, e da protagonista aveva vissuto il dramma di Nicopoli, dove con tanti altri signori era finito prigioniero degli Infedeli. Riscattato, interpretò in buona misura la successiva spedizione in difesa di Costantinopoli – otto galee genovesi, in nome del trattato coi Francesi, e altrettante veneziane, a fianco della flotta d’Oltralpe – come una vendetta personale alle vicissitudini patite. Per una serie di circostanze non si ebbero i grandiosi effetti sperati, ma egli considerò soltanto rimandata la partita, mai rinunciando al sogno suggestivo. «Il governo di Genova – leggiamo nel Vitale – non doveva essere fine a se stesso, ma strumento per fornirgli le navi e i mezzi nella vagheggiata impresa orientale. Ma questo non era possibile finchè durasse il turbolento disordine interno. Di qui la ferma severità del suo governo».
Giunto con mille uomini – contro i venti del suo predecessore – presto condannò a morte Battista Boccanegra e Battista Luxardo De Franchi, accusati d’usurpazione di potere. Il primo non ebbe questa volta fortuna, e venne pubblicamente decapitato all’una di notte: non meno esterrefatto della moltitudine presente, lui che all’arrivo del Governatore gli si era fatto incontro deferentemente. Gli spettatori urlarono, ondeggiarono, e ciò fu provvidenziale pel De Franchi, che profittando del momentaneo smarrimento si diede alla fuga; un po’ meno, invece, pel responsabile della sorveglianza, ucciso per ordine dell’irritato Bucicaldo. Le esecuzioni, del resto, dovevano farsi frequenti. Come per incanto le fazioni si ridussero al silenzio, e il Governatore proseguì la sua opera. I parlamenti vennero proibiti, nè consentita la scelta di Vicari, Gonfalonieri Conestabili fra i Popolari; le Arti dovevano fare a meno dei loro Consoli, e giacchè li elessero egualmente, questi ultimi finirono in gattabuia. Ad amministrare la giustizia era chiamato un Podestà dalla Francia, mentre ai cittadini veniva vietato il possesso di armi e la celebrazione di feste intese a ricordare le passate affermazioni della Repubblica. Si provvedeva intanto alla costruzione di due torri in Darsena e al rafforzamento del Castelletto; e tutto questo, e altro ancora, Le Maingre deliberò in nome del Re e non del popolo genovese, mentre i figli di Francia soppiantavano ovunque le insegne rossocrociate. Eppure sembra che ad un anno dal suo arrivo inviati genovesi in Francia chiedessero la sua riconferma, e che allo stipendio dei precedenti Governatori, di lire 8.625, volontariamente se ne aggiungessero altre 10.000. Lati positivi, senza dubbio, possiamo riconoscergli. Così, oltre alla pace interna ottenuta con tanto vigore, vanno ricordate le leggi che portano il suo nome: non provvedimenti personali – già nel marzo dell’anno 1400 una commissione era stata incaricata della raccolta – «ma resi possibili – notò ancora il Vitale – dal periodo di relativa tranquillità che egli aveva rappresentato». In vigore dal 7 ottobre 1404, «costituirono la piu’ ampia raccolta che Genova abbia avuto, comprendente in sette libri tutta la materia civile, criminale, economica, di polizia, nonchè la legislazione sulle arti».
Quindi si può, senza dubbio, affermare che il “Bucicaldo” fu un buon Governatore (tra l’altro portò a Genova Papa Benedetto XIII) consolidando anche l’economia genovese, ma le trame di potere non volevano concludersi e, nel 1409, dopo lo scontro con Teodoro del Monferrato, fu costretto a ritirarsi nel castello di Gavi e da lì raggiungere la Francia. Ma il Bucicaldo non era uomo da vivere una comoda pensione. Riprese a guerreggiare, finendo catturato nel 1415 ad Agincourt, morì in prigionia sei anni dopo.
Cristoforo Colombo e il Nuovo Mondo
Gli anni seguenti il governo del “Bucicaldo” furono contrassegnati, dopo l’avvento di Teodoro del Monferrato, da un momentaneo ritorno al dogato con la figura di Giorgio Adorno. Ma, come sempre, le lotte tra le famiglie permisero ad esponenti non genovesi di prendere il potere della città. Questa fu la volta dei Visconti, seguiti dagli Sforza, per tornare nelle mani dei francesi con Luigi XII. Ma, a dire il vero, questi non furono anni eroici per la nostra città angustiata da padroni stranieri e dalle solite lotte intestine tra le famiglie, tra cui spiccavano gli Adorno e i Fregoso. Tralasciamo quindi di parlare degli avvenimenti di quegli anni perchè sono soltanto un susseguirsi di scaramucce, che servirono soltanto ad affondare il potere politico della città, per passare ad occuparci di due personaggi famosi che vissero nel periodo a cavallo del 1400 e del 1500 e che fecero la storia di Genova: Cristoforo Colombo e Andrea D’Oria.
Cristoforo Colombo, nacque a Genova nel 1451, anche se Vittorio Giunciuglio, nel suo libro “Un ebreo chiamato Cristoforo Colombo” la pensa diversamente, ecco cosa dice: “Comunque, il porto di Lisbona ebbe un enorme sviluppo commerciale per l’arrivo di merci dalle colonie africane, attirando l’interesse di banchieri genovesi e piacentini che si stabilirono nella capitale lusitana. Intorno al 1479, da fonti portoghesi sappiamo che arrivarono in città pure i fratelli Cristoforo e Bartolomeo Colombo; ma essi, pur avendo un passaporto della Repubblica di Genova, non erano genovesi ma piacentini! Come mai questo controsenso? Perché una fetta della provincia di Piacenza, apparteneva alla Liguria, il cui confine arrivava fino a Bobbio, il cui podestà era genovese. Pertanto a tutti i nati nei comprensori di Ottone e Bobbio (e i Colombo erano tra questi) veniva rilasciato il passaporto della Repubblica, mentre agli altri piacentini veniva dato il passaporto del Ducato di Milano, del quale essi facevano parte. In Spagna e Portogallo questi ultimi venivano definiti “milanesi”, mentre quelli di Bobbio “genovesi” , dato che lo Stato italiano non esisteva ancora. Ciò causera nei secoli grossi equivoci tra gli storici, riguardo la ‘”genovesità” di Cristoforo Colombo”. Tra l’altro il Giunciuglio parla anche di una chiara origine ebraica di Colombo e nel suo libro riporta interessanti notizie su questa sua particolare convinzione.
Ma, volendo rimanere su quello che la storia fino ad oggi ci ha insegnato, pur con le sue inesattezze, ecco il racconto di Michelangelo Dolcino, in “Storia di Genova nei secoli”: “Colombo attorno al 1478 s’era stabilito a Lisbona, intraprendendo viaggi alle isole dell’Atlantico e alle colonie portoghesi d’Africa. Convintosi – anche per opera del fiorentino Paolo Toscanelli – della possibilità di raggiungere l’India facendo rotta verso Ponente, dopo molte peripezie ottenne aiuto dalla Regina Isabella di Castiglia. Salpato da Palos con tre caravelle – Nina, Pinta, Santa Maria – approdò appunto il 12 Ottobre 1492 nella terra da lui detta San Salvador. Esplorò Cuba e Haiti, poi tornò in Ispagna, dove conobbe accoglienze trionfali. Nel ’95 compì un secondo viaggio, nel ’98 un terzo, scoprendo nuove isole e il continente dell’America Meridionale. Sospettato di mire ambiziose, fu incarcerato dal rappresentante del Re, che lo accompagnava, e rimandato in Europa come prigioniero. Tuttavia la corte riconobbe la sua innocenza e gli affidò una quarta floffa, da lui condotta sino alla costa dell’Honduras. Morì a Valladolid nel 1506. Per la grandezza della sua figura, molte località italiane e straniere avocarono a sè l’onore di avergli dato i natali. La questione dovrebbe ritenersi chiusa, considerando le lettere da Colombo inviate ai Protettori di San Giorgio e a Nicolò Oderico, Ambasciatore della Repubblica in Ispagna, i documenti notarili e il denso volume documentario di Giovanni Monleone e Giuseppe Pessagno, curato dal Municipio di Genova nel 1931.
Ma come Genova stessa si comportò, nei suoi commerci, di fronte alla nuova situazione creata dalla scoperta colombiana? «A misura che il pericolo turco si è acuito – ha scritto Vitale – minacciando, contro ogni possibilità di resistenza, le basi stesse del grande commercio orientale, l’attività genovese si è venuta spostando verso l’Occidente, ben prima che la nuova via delle Indie e il viaggio del grande concittadino spostassero verso le coste dell’Atlantico il centro commerciale e marinaro del mondo, con la conseguenza di trovarsi pronta e preparata ad approfittare della nuova situazione. Non solo sono stati intensificati i rapporti con le coste settentrionali dell’Atlantico, Fiandre e Inghilterra, sino alla fine del secolo XIII quasi ignorate o trascurate, ma si è avuta tutta una irradiazione commerciale prettamente ligure, che dai primi centri di Majorca e Madera si è estesa principalmente a Siviglia e Lisbona».
Quindi, come si desume dalle parole da questi importanti studiosi, Colombo per avendo effettuato la sua opera lontano da Genova, ha aiutato indirettamente la sua città natale, riportandola ad essere un centro marittimo fondamentale, che dopo il saturarsi dei commerci nel Mediterraneo e verso l’Oriente, trovava nuovi sbocchi con le aperture verso l’Atlantico. Pur rispettando tutti gli studi storici che vogliono farci intendere che forse Cristoforo Colombo non era genovese, noi preferiamo continuare a considerarlo un nostro concittadino. Un uomo pieno di debolezze, di difetti, un avventuriero senza scrupoli, ma pur sempre, colui, che senza accorgersene aveva scoperto la più grande miniera di risorse del mondo, l’America, dalla quale hanno attinto tutte le grandi potenze a partire dal ‘500 fino alla completa colonizzazione dell’800.
Paolo da Novi e la comparsa di Andrea D’Oria
Come abbiamo accennato nel capitolo precedente, Genova aveva alla fine del XVI secolo molti pretendenti. Le potenze, sia italiane che straniere, avevano capito quanto fosse importante quel porto posto nella zona centrale del Mediterraneo e già pronto per i commerci verso l’Atlantico e con navi e ammiragli abili nelle battaglie. Il colpo definitivo lo diede Luigi XII, nel 1502, accolto in città in maniera solenne. Ma, i genovesi non riuscivano a subire passivamente l’invadente dominio francese e l’elezione a Doge del tintore Paolo da Novi il 10 aprile 1507, diede la scintilla alla rivolta. Purtroppo le cose non andarono troppo bene e a farne le spese fu proprio il “Doge plebeo”. Ecco gli avvenimenti raccontati da Michelangelo Dolcino: “Le forche e le mannaie tornarono a mostrare la loro macabra ombra, numerosissimi furono gli arresti, le violenze. Quanto al Doge, riparò in tempo a Pisa, dove contava numerose amicizie. Di qui sperava di portarsi a Roma presso Giulio II, il Pontefice ligure tanto ostile ai Francesi, e per questo s’imbarcò sul brigantino del camogliese Corsetto – o Corzetto – che aveva militato sotto di lui; ma questi per gli 800 ducati della taglia lo consegnò al Pregent. L’11 giugno Paolo ritornava quindi a Genova, in catene, e dopo quindici giorni di detenzione in Castelletto fu condotto in vesti cenciose sulla Piazza di Palazzo Ducale, per l’esecuzione. Il suo corpo sarebbe stato diviso in quattro parti, da esporre nei diversi quartieri cittadini; la testa doveva finire a sommo della Torre di Palazzo. Chiese perdono a chi avesse offeso e invitò a pregare per lui; incitò i popolani a non disunirsi, e anche a non fidarsi troppo dei nobili e dei “Cappellazzi”. Le ultime parole furono però per il Mastro di Giustizia: un invito a sbrigarsi. Poi s’inginocchiò, mise il capo sul ceppo e tutto finì. Era il 15 giugno 1507. Le aspirazioni delle Cappette s’erano veramente dissolte, e definitivamente chiusa la loro rivoluzione.”
Dopo l’esecuzione di Paolo da Novi, i francesi pensarono bene di rivolgere le loro attenzioni alla sicurezza del loro dominio, rafforzando il Castelletto e il Castellaccio, ma, soprattutto, costruendo la celebre “Briglia”, che nelle intenzioni dei transalpini doveva servire ad imbrigliare le velleità genovesi. Invece la voglia di libertà era più forte della prepotenza francese e la vita degli invasori non era di certo più piacevole di quella dei sottomessi. Ogni occasione era buona per una scaramuccia o per una vera e propria battaglia. Il resoconto, sempre del Dolcino, che leggeremo adesso ci fa conoscere una delle tante dispute e, inoltre, introduce il personaggio che chiuderà la nostra storia: il “Principe” Andrea D’Oria.
“Un altro notevole fatto si verificò in quei giorni: il decidere la creazione di una forza navale propriamente della Repubblica, mentre sin allora – e numerosissimi esempi abbiamo incontrato – si aveva fatto appello agli armatori privati. Si diede quindi ordine di impostare due galee sotto la direzione di Andrea D’Oria, rientrato in Genova con Giano; nel relativo atto, in data 6 ottobre 1512, si precisava che Andrea doveva successivamente assumere il comando delle nuove unità: aveva così inizio la sua carriera marinara, e anche il suo interessarsi, non più interrotto, alle vicende cittadine. Intanto un congiunto, Nicolò D’Oria, era posto alla guida della flotta “esterna”, allestita secondo i sistemi tradizionali. Arresosi pure il Castellaccio, rimaneva il grosso problema della Briglia, ma invano innumerevoli attacchi vennero portati dalla terra e dal mare. Un’unica speranza rimase agli assedianti: prendere per fame, con un rigidissimo blocco, i francesi e il loro abile comandante, il normanno Guglielmo di Houdetot. Nella seconda decade del marzo 1513, in una notte di mare agitato, un legno si avvicinò alla città, con l’insegna genovese sul picco di maestro. Si seppe poi che la nave – una “barchia” normanna – era partita da Marsiglia, aveva doppiato Genova al largo, per poi tornare da Levante, a scanso d’ogni sospetto. Lo scafo si diresse al porto, e le unità del blocco gli diedero il passo, ritenendolo connazionale; ma con improvvisa manovra si portò presso la scogliera della Briglia affidandosi alla protezione delle sue bocche da fuoco. Le veglie, l’interminabile guardia potevano d’un tratto essere completamente compromesse. I marinai, gli armati genovesi erano smarriti, e così le autorità, radunate d’urgenza per una decisione, mentre la “barchia” poteva iniziare da un momento all’altro lo scarico dei rifornimenti. A queste si presentò tuttavia un oscuro cittadino, e fortunatamente venne ascoltato. Disse di chiamarsi Emanuele Cavallo, figlio di Pietro Valente – un “cappellazzo”, dunque – e d’essere in grado di neutralizzare lo sleale stratagemma francese: occorreva accostare la nave, svellerla dall’approdo e trascinarla lontano dalla Briglia, a impedire i rifornimenti. Il piano non offriva certo garanzie di riuscita, ma in mancanza d’altre proposte si aderì alle richieste del Cavallo: una nave e un pugno d’uomini. Non fu difficile trovare trecento volontari, e tra questi era Andrea D’Oria. Alle prime luci dell’alba una galea si dirigeva a voga serrata contro i Francesi, costretti intanto. per difendersi, a interrompere l’iniziato sbarco di viveri e munizioni. “Si accende un curioso combattimento tra le due navi. – scrisse De Simoni – Ai colpi delle artiglierie scagliati dalle navi nemiche, si aggiunge una fitta pioggia di sassi e di moschettate che partono dalla Briglia. Cadono da una parte e dall’altra morti e feriti. Tra questi ultimi vi è Andrea D’Oria che, colpito violentemente da una scheggia di legno, giace sulla tolda inanimato. Egli non è morto come fu ritenuto a tutta prima, ma come tale giacque a lungo sulla tolda finchè durò il combattimento”. In quell’inferno i genovesi riuscirono ad accostare e balzarono all’arrembaggio, in una lotta ancor più sanguinosa. Finalmente Cavallo raggiunse la prua e recise la gomena che teneva fermo lo scafo alla scogliera. Molti francesi lasciarono la nave per trovare salvezza alla Briglia. e con la loro presenza annullarono il beneficio dei pochi viveri sbarcati. Altri rimasero a bordo, ormai passivi nei confronti dei genovesi, che agganciata la preda con certi rampini disperatamente avevano preso a trascinarla. Ad un certo momento il comandante Esclavon si gettò in acqua, col proposito di raggiungere anch’egli la fortezza, ma fu scorto da Benedetto Giustiniani: si tuffò a sua volta, raggiunse l’avversario, l’afferrò saldamente lo portò sino alla nave dei nostri, che conclusero l’azione rimorchiando la “barchia” sino alla spiaggia di Sampierdarena o – secondo altri – alla marina di Sarzano. Trentadue, complessivamente, furono i prigionieri: ventisei vennero condannati al remo, gli altri – certo ricordando il supplizio di Paolo da Novi – impiccati alle finestre di Palazzo Ducale. Nel tempo alcuni autori sottrassero al Cavallo il merito dell’impresa, per attribuirlo principalmente ad Andrea D’Oria; ma a lui fu incontestabilmente restituito. Al proposito va sottolineato, se mai, il comune prodigarsi di nobili e no, come già osservò il Guerrazzi: “giustizia vuole che il Cavallo, popolano, e il D’Oria, patrizio, debbansi giudicare in virtù di questo tutto, egualmente gloriosi”.
Come dire che l’aristocrazia e la povera gente lottavano per un unico ideale: la libertà. L’unica ragione che univa qualsiasi essere di qualsiasi estrazione per riportare Genova ad un’indipendenza totale. L’unico uomo dell’epoca che poteva realizzare quel sogno era Andrea D’Oria, anche perchè aveva capito che le potenze straniere erano un mezzo utile per raggiungere la libertà. Questa è infatti l’osservazione degli storici Gori e Martini: “Molti esponenti delle famiglie liguri avevano sacrificato Genova allo straniero pur di non perdere il loro potere. Andrea offrì se stesso ad uno straniero purchè fosse restituita a Genova la libertà”. Su questo grande personaggio si concluderà il nostro viaggio nella “Genova dei secoli d’oro”.
Andrea D’Oria: il Principe pirata
“Se Machiavelli lo avesse conosciuto, forse si sarebbe ispirato ad Andrea Doria quale modello per il suo “Principe“; ma non ebbe il tempo ne il modo, se non una volta sola, e di sfuggita. Più stretti invece i legami del Doria con Guicciardini, anche se fra i due non corse mai buon sangue. Andrea Doria aveva la tempra del corsaro, il fascino del principe, la lucidità dell’uomo di Stato. Nato povero, cadetto di un ramo minore della più illustre famiglia ligure, fu prima capitano di ventura al soldo di padroni diversi, poi – a quarantasei anni – s’improvvisò ammiraglio, per la Francia, per il Papa, per Genova. Conquistò il potere assoluto a sessantun anni e la tenne saldamente fino a novantaquattro, sopravvivendo a guerre, assalti, congiure; la più sanguinosa, quella del Fiesco, ispirò drammaturghi come Schiller e filosofi come Rousseau. La sua alleanza con la Spagna di Carlo V ribaltò gli equilibri politici del Mediterraneo e inserì la Repubblica di Genova nella politica internazionale del tempo, facendo dei banchieri genovesi gli arbitri della finanza europea per quasi due secoli. Soprattutto, deve la sua popolarità alle battaglie ingaggiate contro il pirata Barbarossa, il grande rivale che rispettò sempre, perché gli somigliava. Severo con se stesso e con gli altri, condusse vita austera. Mai gli venne meno il coraggio della ragione: fosse solo per questo, merita d’essere ricordato”. Questa è l’introduzione del bellissimo libro di Paolo Lingua “Andrea Doria – Principe e pirata nell’Italia del ‘500”, che ci fanno capire, in poche parole, quale sia l’importanza storica del personaggio che è riuscito nella sua lunga vita a fare da ago della bilancia nei conflitti delle super potenze nel Mediterraneo, portando (o meglio riportando) Genova alla sua funzione di mediatrice marittima ed economica nell’Europa di quel tempo, garantendo alla sua città quella libertà che aveva perso nel corso dei secoli.
Come forse qualcuno avrà notato, il cognome Doria, viene riportato in alcuni casi come D’Oria. Il cognome con l’apostrofo è quello giusto, cioè si dovrebbe scrivere Andrea D’Oria, ma molti storici, per comodità hanno cominciato a scriverlo senza, creando una discreta confusione.
Andrea D’Oria, nacque ad Oneglia nel 1466, da un ramo debole della grande famiglia aristocratica genovese e, proprio per questo motivo, da giovinetto fu inviato a Roma per diventare “cadetto”, agli ordini dello Stato Pontificio. Lì iniziò ad apprendere i primi rudimenti dell’arte bellica che gli sarebbero stati di notevole aiuto nel proseguio degli anni, riuscendo anche a trasferire tecniche di guerra terrestri nelle sue numerosissime battaglie navali.
Ma la svolta nella vita di Andrea arrivava dopo i quarant’anni ed è questo il periodo storico che ci interessa maggiormente. In quegli anni le potenze in lotta erano la Francia e la Spagna. Andrea, grazie alle grandi capacità che aveva dimostrato, era stato assunto dal Re di Francia come Ammiraglio della flotta navale, ma, da abile uomo di guerra, presto cambiò idea, per passare sotto l’ala protettrice di Carlo V, l’Imperatore spagnolo. Questo suo passaggio da uno schieramento all’altro fu da molti considerato un atto di tradimento, ma Andrea sapeva che era l’unico modo per riportare a Genova la ricchezza e l’indipendenza. Ecco un brano tratto da “Storia di Genova nei secoli” di Michelangelo Dolcino, che narra questo avvenimento: “La guerra continuava, nella sua tragica furia. Nel ’24 il Re di Francia era sceso in Italia dal Moncenisio, e rioccupata Milano affrontò presso Pavia gli Imperiali; subì una disastrosa sconfitta – il 24 febbraio 1525 – e addirittura finì prigioniero. Condotto a Madrid, passò per Genova e sostò al monastero della Cervara, presso Portofino; ma tornato libero, riprese la lotta, in cui Genova ancora visse angosciosi episodi. Così, nel ’25 Andrea Doria tentò la conquista di Genova dal mare, appoggiato a terra dal Marchese di Saluzzo; respinto, divenne “Assentista” del Pontefice e poi della Francia. Un altro tentativo fu operato nel ’27 dall’Ammiraglio, coadiuvato questa volta all’interno dai Francesi di Lautrec. Il 19 agosto la città cedeva, e presto aveva un Governatore – arresosiAntoniotto Adorno, ultimo Doge perpetuo, a Cesare Fregoso – nella persona di Teodoro Trivulzio. Una nuova struttura costituzionale veniva delineata, prevedente tra l’altro l’esclusione perpetua dai pubblici uffici di Adorno e Fregoso, quando accadde un evento determinante: il 13 settembre 1528 Andrea Doria, passato allo schieramento imperiale, sbarcava a Genova e vi era accolto come un liberatore. Il 28 ottobre veniva occupata Savona. Presto le sue mura dovevano essere abbattute, e il porto colmato di sassi; la popolazione più non avrebbe potuto riunirsi a parlamento senza il benestare della Dominante. Il Doria era passato a Carlo V con una convenzione firmata a Madrid il 10 agosto. Per volere del Genovese il documento si apriva con tali parole:“Piena indipendenza di Genova e piena sovranità su Savona. Libera facoltà ai genovesi di commerciare in assoluta parità con i sudditi di Carlo V in tutti gli Stati dell’Imperatore”. Non mancarono naturalmente gli autori che accusarono il grande “Assentista” di tradimento. Occorre al proposito osservare che al momento dell’ingaggio da parte di Carlo V, il contratto che lo legava alla Francia era scaduto; secondo poi la versione ufficiale del Servizio Storico dello Stato Maggiore Generale della Marina Francese, Andrea Doria era stato privato del suo grado prima di trasferirsi al campo opposto. Manifestazione d’avidità? Rimase la sua volontà, prima di affrontare le clausole che lo riguardavano direttamente, di occuparsi di Genova”. In questo brano è riportata alcune volte la parola “assentista”, questo termine veniva usato per i comandanti navali che si comportavano come i “condottieri” di terraferma, cioè firmando contratti per l’uno o l’altro padrone, portando a chi li assoldava tutti i benefici e tutti i difetti di questi accordi. Tutti gli stati di quell’epoca utilizzavano questi capitani di ventura, tranne Venezia che non volle mai farvi ricorso.
Tornando alla nostra storia, avidità o grande capacità di capire il momento portarono Andrea in una posizione di grande potere, questo fu un vantaggio per lui e per la città, ma anche di estremo pericolo per la sua vita.
Gli anni del D’Oria e la congiura del Fiesco
Come abbiamo visto nel capitolo precedente, Andrea D’Oria divenne un grande Ammiraglio agli ordini, se così si può dire visto il suo spirito indipendente, dell’Imperatore Carlo V. Per lui fece numerose conquiste nel Mediterraneo, traendone notevoli vantaggi, e, soprattutto, intraprese molte battaglie contro il temibilissimo Kaireddin-Barbarossa, un rinnegato greco/albanese che nel ’16 aveva preso Algeri con altri centri nord africani.
Nel ’32 Andrea D’Oria, a capo di ventotto galee spagnole conquistava Corone, in Morea; ma la grande azione contro il Barbarossa avveniva nel ’35, quando la Spagna e la Chiesa mettevano a disposizione di Andrea settantaquattro galee e navi minori, con ventimila uomini. Tunisi fu presa, ma Kaireddin riuscì a sfuggire,qualcuno insinuò che alla fuga del nemico non fosse estraneo il nostro Ammiraglio, il quale in cambio avrebbe avuto la promessa formale che i centri liguri non avrebbero più subito l’imperversare dei turchi. Ancora di accordi si parlò nel ’38, quando nelle acque di Prevesa, il 27 settembre, i turchi – manifestamente inferiori – si sottrassero alla battaglia contro una grande flotta ispano-veneto-pontificia, guidata dal D’Oria. Quando, dal ’42 al ’45, i turchi portarono un’infinità d’incursioni sulla costa italiana, la Liguria fu sempre risparmiata: perchè gli Ottomani erano alleati coi Francesi, e questi ancora non disperavano di portare Genova dalla loro parte. Altre perplessità sul comportamento dell’Ammiraglio ci furono quando, nel 1540, Giannettino D’Oria, nipote di Andrea, catturò un altro famosissimo pirata, Dragut. Il mondo cristiano tirò un sospiro di sollievo, ma poco dopo Andrea lo rimetteva in libertà. Si seppe poi che aveva avuto in cambio 3.500 ducati e il territorio di Tabarca in Tunisia, dove in seguito si stabilì una colonia genovese, fiorentissima in primo luogo per la pesca del corallo. Le grandi capacità navali del D’Oria, comunque, si manifestarono appieno in quegli anni. La maggior prova, forse, la diede in una occasione sfortunata: quando, nel ’41, una flotta di settantatre galee e trecento navi grosse, al comando dell’Imperatore in persona, incappò davanti ad Algeri in una terribile tempesta. Soltanto l’esperienza e l’audacia dell’Ammiraglio riuscirono scongiurare un disastro di enormi proporzioni, e la massima parte dell’esercito e lo stesso Carlo V poterono salvarsi sulle navi superstiti.
Ma la prova più impegnativa fu quella sopportata a terra: la cosidetta congiura dei Fieschi, nel ’47. Questo il racconto di Michelangelo Dolcino: “Animatori ne furono Gian Luigi Fieschi, i fratelli Cornelio e Gerolamo Ottobuono, Giambattista Verrina. Andrea, col nipote Giannettino e Adamo Centurione, banchiere di Carlo V, dovevano morire; Barnaba Adorno sarebbe stato Doge, la Repubblica stessa sottratta all’orbita spagnola per inserirsi in quella francese. Nella notte tra il 2 e il 3 gennaio, dunque, i nobili congiurati e gli uomini scesi dai feudi fliscani occuparono le porte cittadine; le successive mosse prevedevano la cattura delle galee dei Doria e l’insurrezione dei galeotti musulmani. Giannettino Doria, uscito dal palazzo di Fassolo alle prime avvisaglie, fu ucciso presso la porta di San Tommaso. Lo stesso Andrea, già avanti cogli anni, fu colto di sorpresa. Amico di Sinibaldo, il padre di Gian Luigi, non poteva capacitarsi del tradimento di quest’ultimo, che la sera stessa s’era recato ad un convito presso Giannettino, giocando coi suoi figli. . . Tuttavia, quando l’azione sembrava coronata da successo fallì nel modo più banale: nell’attraversare in Darsena una passerella per salire su una nave dei Doria, Gian Luigi cadde in acqua e gravato dall’armatura annegò miseramente. Il suo corpo doveva essere ritrovato soltanto quattro giorni dopo, trattenuto dalla fanghiglia. La maggior parte dei congiurati, conosciuta la sorte del loro capo, non rispose agli appelli di Gerolamo Fieschi, che ostinatamente, mosso dalla disperazione si rifaceva al grido «Gatti! Gatti!», legato all’emblema di famiglia, e alla parola “libertà”. La morte di Giannettino rese più spietata la repressione voluta dal vecchio Ammiraglio. Gerolamo, assediato nel castello di Montoggio, vi venne catturato e ucciso; i grandi feudi fliscani dell’Appennino e della Lunigiana furono confiscati e ripartiti tra la Repubblica, il Doria e i Farnese. Il castello di Montoggio venne nell’agosto raso al suolo con mine, e nel giugno precedente eguale sorte aveva avuto il sontuoso Palazzo Fieschi di Via Lata. Giambattista Verrina, infine, ebbe il capo mozzato. E quando l’anno seguente, un cognato di Gian Luigi, Giulio Cybo, ebbe parte in un’altra congiura tessuta da Scipione Fieschi, ancora d’ispirazione francese, la collera di Andrea tornò ad esplodere: il Cybo fu ucciso e con lui gran parte dei congiurati. Un Bruto, a modo suo, un eroe di stampo plutarchiano, Gian Luigi Fieschi? Il Cardinale di Retz in una sua opera mise a fuoco soprattutto l’ambizione del congiurato, ed eguale giudizio, in fondo, diede anche Schiller nella tragedia ispirata al fatto. Sgombrato il campo da sciocche interpretazioni romantiche – gelosia nei confronti di Giannettino, preteso corteggiatore di sua moglie Eleonora, o risentimento perchè lo stesso Giannettino era stato preferito come sposo da Ginetta Centurione – validissimo rimane il giudizio del Vitale: «Nessun Bruto o maschera di Bruto nella storia di Genova, neanche Gian Luigi Fieschi, che molti storici del secolo scorso hanno rappresentato come vendicatore della libertà interna e dell’esterna indipendenza della Repubblica. Basta considerare che, riuscendo, egli avrebbe bensì sostituito il proprio predominio personale sotto il governo francese alla larvata signoria doriana protetta dalla Spagna, ma non avrebbe potuto, come il Doria e Carlo V imporre condizioni alla Francia chiamata in aiuto: e la libertà di Genova sarebbe stata più che mai parola vuota di senso.”
Questi avvenimenti turbarono la Spagna: il Figueroa, Ambasciatore a Genova, e Ferrante Gonzaga, Governatore di Milano, decisero di costruire una fortezza a Pietraminuta, con un contingente fisso di soldati affidato al Capitano Generale Agostino Spinola, ma la presenza di soldati straneri avrebbe in sostanza segnato l’inizio di un nuovo assoggettamento, e l’Ammiraglio «Padre della Patria», com’era stato chiamato nell’offrirgli il dono di un edificio a San Matteo nuscì a far cambiare idea ai due potenti. Si doveva però intervenire sulle strutture della Repubblica e così si fece. Il Maggior Consiglio avrebbe avuto soltanto trecento membri sorteggiati dal “Liber civitatis”; gli altri cento sarebbero stati designati invece per votazione, e allo stesso modo si sarebbero scelti i componenti del Minor Consiglio. “Con questa riforma – osservarono Gori e Martini – i nobili del portico di San Luca (i “vecchi” tra i quali si annoverano i migliori amici della Spagna) vennero a trovarsi in condizioni di favore rispetto ai nobili del portico di San Pietro (i “nuovi” meno legati alle sorti dell’impero, in quanto non partecipanti alla fornitura di galee o di prestiti iberici)”.
Nel ’48 giungeva a Genova Filippo II, erede al trono. L’ospite chiese di essere alloggiato a Palazzo Ducale, ma il D’Oria lo volle a Fassolo, suo ospite privato, a ribadire l’indipendenza della Repubblica; episodio che costava la destituzione al Figueroa. Ma fu quella l’ultima vera affermazione dell’Ammiraglio. Nel ’50, superati gli ottant’anni, guidò un’azione a Mehedia, contro Dragut, però questi gli sfuggì; due anni dopo un’altra spedizione, contro la Corsica sollevata da Sampiero di Bastelica coadiuvato dai Turchi e Francesi, non potè impedire che gran parte dell’isola passasse ai nemici: quelle terre sarebbero ritornate genovesi soltanto nel 1559, col trattato di Cateau-Cambrésis. Nell’impresa di Corsica era con Andrea il pronipote Gianandrea, figlio di Giannettino, investito di comandi navali appena sedicenne. Nel ’60 lo stesso giovane partecipò, in subordine al Duca Medina Celi, Vice Re di Sicilia alla spedizione contro Tripoli di Libia, voluta da Filippo II nel quadro del conflitto ispano-turco. Presso le Gerbe la flotta subiva però un pesante scacco da Dragut e Ulug-Alì, e la notizia risultò fatale per Andrea novantaquattrenne: “Il colpo recatogli dalla sconfitta, – scrisse Vitale – che finiva di distruggere la sua opera intesa ad assicurare alla Spagna il predominio navale nel Mediterraneo, passato ora alla Turchia, era stato troppo forte per il vecchio marinaio. Volle attendere in piedi i messi che gli recavano notizie del nipote; udito che era salvo, si coricò per non alzarsi più: era il 25 novembre 1560″. Moriva quando la pace di Cateau-Cambrésis sanciva l’assoluto predominio della Spagna nella penisola: “Per opera sua Genova, necessariamente legata alla grande potenza, conservava quel tanto di libertà che era ancora possibile in un’Italia tutta dominata dagli spagnuoli e poteva, con maggiore o minore fortuna, sostenere la neutralità che egli aveva inaugurato, mentre, per effetto degli accordi da lui stipulati, i suoi concittadini si impadronivano economicamente della nazione dominatrice”.
L’oro – diranno gli Spagnoli – nasce in Oriente, muore in Ispagna e viene sepolto a Genova.
Epilogo
Qui finisce il nostro viaggio virtuale nella “Genova nei secoli d’oro”. Di certo, molti critici storceranno il naso, se mai leggeranno queste pagine, per la disinvoltura e la semplicità con la quale sono stati esposti gli argomenti. Questo non vuole essere un trattato di storia medievale, ma soltanto un modo immediato per proporre quei mitici anni che la nostra città ha vissuto.
Ed è soltanto grazie ad Internet che questo tipo di storia si può proporre. L’abbinamento delle pagine scritte con le fotografie che si possono osservare sullo schermo, ci danno l’esatta connotazione di quella che ancora oggi è la Genova storica. Una città, a volte dimenticata, a volte sminuita di quelle che sono le sue reali ricchezze, che possiede un patrimonio artistico di enorme valore, purtroppo nascosto in un gigantesco baule sporco e mal conservato che è l’antico centro storico.
Sta a noi scoprirlo, promuoverlo e farlo conoscere al mondo.
Stefano D’Oria
6 febbraio 1999