Le pagine di San Pier d’Arena

Questo è un sito realizzato nel 2000 e che racconta molte cose della “piccola città”.

Per chi vuole conoscere ancora meglio Sampierdarena (io preferisco scrivere San Pier d’Arena) può visitare il sito del grande Ezio Baglini (1937 – 2013) collegandosi a questo link

Questa è un’immagine attuale di Sampierdarena, con i suoi grattacieli, con il porto che si allunga sui moli verso il mare e con le strade che s’intersecano tra i palazzi per raggiungere la collina che si alza verso nord ovest. Sampierdarena, per chi non lo sapesse, è la prima delegazione di Genova, verso la Riviera di Ponente. Non può essere considerata una città, anche perché è legata da anni, costituzionalmente, al Comune di Genova e poiché della metropoli ne è una naturale continuazione, soprattutto dopo che, nei primi anni del ‘900, è stato abbattuto il monte di San Benigno che la separava dal Centro. Non può essere considerata una città, nonostante i suoi cinquantamila abitanti ed una storia che parte dagli inizi del secondo millennio per arrivare fino ad oggi, solo perché è stata inglobata (peraltro giustamente) nella grande Genova.

Le origini e il Medioevo

Non si hanno notizie precise sulla nascita di Sampierdarena come centro abitato. Alcuni la fanno risalire all’età augustea, altri, collocandola in un periodo più recente, ritengono che le sue origini si debbano ricercare nell’epoca dei Goti, esattamente nel 725, quando il re longobardo Liutprando si fermò ad attendere le ceneri di Sant’Agostino, provenienti dall’Africa, sulla spiaggia di questo piccolo borgo e quando queste arrivarono le depositò in una piccola “cella” all’interno di una chiesetta costruita dai pescatori del luogo e dedicata a “Sancti Petri ad Arenaria” per essere custodite, prima di essere trasportate a Pavia, capoluogo italico dell’Impero.
Questa, quasi sicuramente, è la prima notizia storica riguardante Sampierdarena. Probabilmente attorno alla chiesa esisteva già un piccolo ed autonomo borgo popolato per lo più da pescatori.
In questa zona, dove attualmente si trovano la chiesa di Santa Maria della Cella e il palazzo del Municipio, furono edificate le prime case, naturalmente in legno, ed una fortificazione, denominata “castello”, che fungeva da centro per gli scambi sociali e materiali tra i membri della comunità. Altri gruppi di case e capanne erano situati in diverse parti di questo ampio spazio esteso dall’argine sinistro del Polcevera fino al monte di San Benigno, che segnava il confine con Genova.

La chiesa di Santa Maria della Cella

Subito a ridosso della collina si trovava la “Coscia” (detta anche “Pedefa”, perché si trovava ai piedi del faro che nel corso dei secoli divenne la Lanterna), un agglomerato di piccoli casolari, abitati da pescatori, e lì arrivava un sentiero che scendeva dall’alto, da “Promontorio” e da “Belvedere”, dove risiedevano e lavoravano un gruppo di contadini. Salendo l’argine del Polcevera, verso nord-ovest, si trovava un altro gruppo di abitazioni edificate intorno ad una pieve dedicata a San Martino: il “Campaccio”. Proseguendo, invece, verso ponente esisteva ancora un piccolo borgo di pescatori, la “Sciumea” (l’attuale zona della Fiumara, denominata, in seguito, anche come “Canto”) che avevano costruito le loro case alla foce del Polcevera.
Questi furono, quindi, i primi cinque rioni che costituirono la primordiale Sampierdarena. Lentamente le varie zone si allargarono e il 2 Febbraio 1131 fu costituito un Comune autonomo con l’elezione dei primi tre consoli: Oberto di Bosolo, Biagio della Scala e Pietro della Plada. L’elezione avvenne nella pieve di San Martino al “Campaccio”, dove si decise di creare un vero e proprio parlamento, che si adunasse, all’aperto, sul piazzale del mercato o sul sagrato della chiesa.

Il piccolo comune cominciò ad avere una propria autonomia politica ed amministrativa, continuando a subire, in ogni caso, l’assoggettazione di Genova. Fu proprio dalla grande città che nacquero le fortune di Sampierdarena. Infatti, dopo la conquista della Sicilia da parte di Enrico VI, i consoli genovesi che costruivano e gestivano la flotta dell’Imperatore, non avendo più spazio per l’attracco al Mandraccio, si videro costretti a spostare i cantieri navali da Prè alla grande spiaggia sampierdarenese. Inoltre, in un magazzino del borgo si scaricava il sale, allora bene preziosissimo, proveniente dalle saline siciliane e, viste le grandi quantità che arrivavano, fu necessario il raddoppio di tali magazzini. Cambiarono, così, le abitudini lavorative dei sampierdarenesi: da contadini e pescatori molti divennero operai e scaricatori, specializzandosi in attività che nel tempo li resero celebri e nominati in tutta la Liguria. Tipici sono gli esempi dei “calafati” e dei “minolli”. I primi, già in opera nel XII secolo, erano coloro che si occupavano di rendere impermeabile lo scafo della nave, introducendo nelle fessure del fasciame pezzi di stoffa catramata che poi erano ricoperti di pece. I secondi, invece, nati professionalmente secoli dopo, erano coloro che con grandi barconi, chiamati “leudi”, caricavano e scaricavano sabbia che era utilizzata come zavorra per i bastimenti di grossa stazza. Sampierdarena cominciò, quindi, ad avere una propria fisionomia sia strutturale sia sociale. Geograficamente due zone rivierasche, Coscia e Sciumea, poste a ai lati del “Castello”, centro nevralgico del comune dove si svolgeva anche il mercato, una nell’immediato entroterra, il “Campaccio”, e due sulle colline appena al di là del mare, il “Promontorio” e “Belvedere”. Anche i cittadini definirono le loro attività: pescatori, contadini, operai dei cantieri navali e scaricatori nei magazzini del sale.

Sampierdarena, in quell’epoca, era considerata l’ultima “pieve” della Val Polcevera e come diceva il Giustiniani: “Contiene una piaggia lunga un miglio, tanto comoda a  varar delle navi, che non potrebbe esser più; e par che la natura l’abbi fabbricata a questo effetto”.

A spasso per le ville: da “posto di lavoro” 
a “villeggio per signori”

Villa Scassi (prima Imperiale), detta la “Bellezza”

Nei primi anni del XVI secolo Sampierdarena cambiò volto. I nobili genovesi, attratti dalla bellezza della periferia, decisero di trascorrere il periodo estivo in questa località e si fecero costruire maestose ville affacciate sul mare con incantevoli colline alle spalle.

Molte torri medioevali, costruite precedentemente per avvistare le navi saracene, furono abbattute, altre trasformate o incorporate nelle nuove costruzioni. Così al posto di numerosi baluardi di difesa costiera sorsero le sontuose ville del patriziato genovese, poste tra parchi e giardini. 

Nella Sampierdarena di quel tempo si contavano novanta palazzi monumentali; divenne, per questo, la più importante stazione di villeggiatura d’Italia.

 Le ville di Sampierdarena

Un edificio che riporta al fasto di quei tempi è la Villa Spinola dei Duchi di San Pietro, attualmente visibile parzialmente sia da Via Istituto Tecnico che da Via Dottesio. Questo palazzo, sobrio, quasi severo, che ospitò Carlo V, è attribuito dai maggiori storici a Galeazzo Alessi. Il modello architettonico è simile a quello della villa Giustiniani – Cambiaso, sempre dell’Alessi, costruita nel 1548.Nel suo interno operarono Bernardo Castello, Andrea Ansaldo e Giovanni Carlone. Di questi artisti, a testimonianza di quella antica grandezza, restano alcuni affreschi : nel ciclo decorativo si snoda l’autocelebrazione della famiglia proprietaria attraverso scene mitologiche e rappresentazioni degli antenati illustri.

Villa Grimaldi detta la “Fortezza”

Poco distante da villa Spinola di San Pietro si trova un altro grande ed importante edificio di strutture severe, tanto massiccio da meritare l’appellativo di Fortezza (nella foto a fianco). Si tratta di Villa Grimaldi detta la “Fortezza”, costruita intorno al 1565 per Battista Grimaldi, ad opera dell’Alessi. A differenza della maggior parte delle altre ville la “Fortezza” ha l’ingresso non sulla strada principale, ma su un asse laterale che anticamente conduceva alla spiaggia: la via denominata un tempo  “creuza larga”, oggi immutata nelle dimensioni, ha preso il nome di Via Palazzo della Fortezza. Uno degli ospiti di maggior importanza in questo palazzo fu il Duca di Mantova, Vincenzo Gonzaga, il quale portò al suo seguito uno dei più grandi pittori fiamminghi dell’epoca, Pier Paolo Rubens, che lì concepì l’idea di realizzare quello che divenne il più famoso libro dedicato alle ville del genovesato. La costruzione dell’edificio risale agli anni 1559 – 1567 su progetto del ticinese Bernardo Spazio. La decorazione della facciata, che oggi potrebbe essere ripristinata solo grazie ad un accurato restauro è opera di Battista Perolli; a Battista Carona, invece, si attribuisce l’elegante e raffinato ornamento della loggia del piano nobile. Gli affreschi nelle varie sale sono accomunati dal soggetto mitologico – guerresco, in particolar modo il ciclo troiano, e si devono al Perolli e a G.B. Castello.

Ma il capolavoro dell’Alessi resta comunque, a Sampierdarena, la Villa Scassi (prima Imperiale), detta la “Bellezza”. L’intero complesso, edificio e giardino, venne fatto edificare nel 1560 da Vincenzo Imperiale sotto la direzione dei fratelli Domenico e Giovanni Donzello. Inizialmente, il palazzo sorgeva isolato con davanti il mare e di lato sentieri ombreggiati da piante, statue, aiuole, per salire alla collina attraverso viali interrotti da grotte che davano la sensazione di trovarsi in uno scenario fantastico, irreale. L’atrio del palazzo venne dipinto da Giovanni Carlone con soggetti mitologici, mentre Bernardo Castello affrescò nella volta della loggia episodi della Gerusalemme Liberata e della giovinezza di Davide; infine Marcello Sparzo decorò a stucchi le nicchie dell’atrio e dello scalone.

La villa negli anni che seguirono venne utilizzata come caserma e poi come ospedale, finché, quasi completamente abbandonata, venne acquistata agli inizi dell’800 da Onofrio Scassi che provvide ad un completo restauro. L’incarico per la parte architettonica venne affidato a Nicolò Barabino, mentre Michele Canzio e Gaetano Centenaro si occuparono degli ornamenti e degli stucchi.

Attualmente il palazzo è di proprietà del Comune ed ospita una scuola. Lo splendido giardino “alla genovese”, ritenuto uno dei più belli d’Italia, anticamente saliva dalle spalle del palazzo in riva al mare fino alla collina; ora la parte iniziale è attraversata dalla maggior arteria di Sampierdarena, Via Cantore, mentre la sua sommità ospita l’Ospedale Onofrio Scassi.

Villa Lercari detta la “Semplicità”

Per chiudere il trittico di ville realizzate su disegni dell’Alessi, va ricordata Villa Lercari detta la “Semplicità”, così denominata per la modestia delle sue forme, costruita nella seconda metà del XVI secolo. Di proprietà dei Lercari nel XIX secolo passò ai Sauli. La particolarità del palazzo sta nella sua struttura architettonica, con colonnati ed arcate che raggiungono una perfetta composizione armonica degli spazi interni ed esterni. Lo splendido giardino che si estendeva fino al mare non esiste più, mentre l’edificio, interamente visibile in Via Daste, è adattato ad abitazione.

… ancora ville

Anche i Doria si fecero costruire una villa a Sampierdarena, per non esser da meno rispetto alle altre nobili famiglie genovesi.

Villa Doria , ora delle Madri Franzoniane, venne costruita nel XVI secolo in posizione angolare rispetto al giardino risultando sfalsata rispetto alle altre che la fronteggiavano lungo la strada. Alla fine del XVIII secolo passò alla famiglia Franzoni e uno di questi nobili, l’abate Gerolamo, la donò alla Congregazione delle Madri Pie, che, come già detto, ancora oggi vi risiedono.

Villa Diana, invece, ha perso la bellezza di un tempo, visto il degrado che la ha completamente deturpata. Costruita tra il XVI e il XVII secolo, era di proprietà della famiglia Crosa. Stessa sorte per Villa Serra Ponticelli, che fu edificata sul finire del XVI secolo ed al suo interno contiene affreschi di grande valore artistico, attribuiti alla scuola dei Calvi.

Villa Centurione, detta del “Monastero”

Sicuramente, una delle ville di maggior interesse è Villa Centurione, detta del “Monastero”. Costruita nel 1587 per Barnaba Centurione, sorgeva di fronte al mare. Prima della costruzione della villa, in questo luogo si trovava l’antico monastero delle Cistercensi. Ancora nel 1850 apparteneva ai Centurione, che la affittarono al Comune di Sampierdarena per collocarvi delle scuole. Passata poi in eredità all’ospedale Pammatone, fu acquistata definitivamente dal Comune di Sampierdarena nel 1885 quale sede della Biblioteca Comunale. E’ tuttora sede di una scuola media. Molte decorazioni dei soffitti sono opera di Bernardo Castello: il genere prediletto dal pittore è sempre quello pastorale, come testimoniano i soggetti tratti da episodi della Gerusalemme Liberata del Tasso e da scene di amori mitologici tra ninfe e divinità olimpiche. Originariamente, sul lato a nord, si trovavano un giardino e un cortile con porticati a colonne, che erano stati sovrapposti al chiostro gotico dell’antico monastero. Nel 1684 subì gravi danni a causa dal bombardamento effettuato dai francesi.

Villa Doria Masnata, posta superiormente alle altre, nell’attuale Via Cantore, fu costruita sul finire del XVI secolo, viene ricordata come Palazzo Doria, sebbene il Vinzoni nel 1757 la indichi di proprietà dei De Mari, con la retrostante Villa Ronco (che recentemente ha visto il completo restauro del giardino). Vi prese alloggio il generale austriaco Botta Adorno nel 1746 dopo la sua fuga da Genova in seguito alla rivolta di Portoria. Passata alla famiglia Masnata fu acquistata dal Comune nel 1872, per farne un ospedale: il primo di Sampierdarena di proprietà comunale. Dell’architettura originaria si è persa ogni traccia degli affreschi esterni. Sono stati cancellati da strati d’intonaco gli affreschi dei soffitti, fatti dai fratelli Calvi nel tardo Cinquecento.

Un altro palazzo situato più in alto, cioè all’inizio dell’attuale Via G.B. Monti, è Villa Centurione Carpaneto. Fatta costruire da Cristoforo Centurione all’inizio del XVII secolo, passò nel 1859 alla famiglia Tubino e dopo alcuni anni, nel 1875 ai Carpaneto. Al piano nobile si trova l’altissimo pregio di questa villa dove nei soffitti di tre sale sono ben conservati gli affreschi che nel 1623 Luigi Centurione commissionò a Bernardo Strozzi; vi sono rappresentati Enea e Didone, Orazio Coclite e Curzio Romano. Bernardo Strozzi, detto il Cappuccino, eseguì queste decorazioni fra il 1624 e il 1625 e restano l’unica testimonianza della sua attività di creatore di affreschi, essendo egli molto più conosciuto come pittore su tela. Il vasto giardino giungeva fino alla riva del mare e, oggi, al suo posto c’è il centro di Sampierdarena.

Per concludere si può ricordare Villa Doria – Istituto Don Daste, che fu fatta costruire ai piedi della salita di Belvedere da Gio Battista Doria e passò in seguito ai De Mari. Nel 1757 il proprietario era Giuseppe Doria, il quale affidò incarico ad Andrea Tagliafichi di restaurare sia l’edificio sia il giardino, ampliato con l’acquisto della villa sottostante che apparteneva ad un altro ramo dei Doria. Fu in questo periodo che venne eseguito il rifacimento del soffitto del salone dove sono ritratti i dogi di casa Doria.

Questo è solo una breve carrellata sulle decine di palazzi costruiti dai nobili genovesi tra il XVI e il XVIII secolo nell’incantevole Sampierdarena dell’epoca. Uno studio approfondito di alcuni anni fa ne ha contate ben cinquantatré ancora esistenti e, purtroppo, in queste pagine non possiamo citarle tutte. Possiamo, comunque, dare una spiegazione al fatto che i nobili genovesi scegliessero Sampierdarena come luogo ideale per le loro vacanze estive: all’epoca la nostra piccola città era bellissima, grazie al mare, alla ricchezza di vegetazione ed al terreno che permetteva di costruire magnifici palazzi ed incantevoli giardini, e, in più, era vicina alla grande Genova, permettendo ai ricchi signori di passare le “ferie” tenendo d’occhio gli affari che continuavano nei loro “scagni” del centro.

La Lanterna: il simbolo di Genova 
è a Sampierdarena

Lanterna di Genova

Sampierdarena, nei secoli scorsi, non fu soltanto luogo di villeggiatura, ma anche zona di battaglia. Secondo gli annali, già nel 1394 ci fu un violentissimo scontro tra Guelfi, condotti da Nicolò Fieschi, e Ghibellini, al comando di Francesco Montaldo. Le scaramucce causarono cento vittime tra la popolazione del borgo. Un altro fatto di guerra avvenne nel 1684, quando i francesi tentarono uno sbarco sull’ampia spiaggia sampierdarenese ma furono ricacciati in mare dopo violenti scontri dalle milizie della piccola città, comandate da Ippolito Centurione, e da altri uomini accorsi da tutta la Val Polcevera. Nel 1746, la villeggiatura dei nobili genovesi fu messa a soqquadro dalle soldataglie austriache di Botta Adorno, che a Sampierdarena aveva collocato il suo stato maggiore. Durante l’imponente assedio del 1800, la cittadina subì ingenti danni, con ville e palazzi distrutti. Il monumento storico più importante cancellato da quella azione di guerra fu la Chiesa di San Martino al Campasso, dove nel 1131 era nato il Comune di Sampierdarena.

Il simbolo di Genova è a Sampierdarena

Di certo, la zona dove avvennero gli scontri più cruenti in tutte le battaglie succedutesi nell’arco dei secoli fu “Capo di Faro”, il luogo dove sorge il simbolo di Genova: la Lanterna. L’erezione di una torre sul Capo di Faro, in passato detto anche “cadefa” può risalire al 1128. Si ignora il nome del costruttore: secondo una leggenda, ad opera ultimata sarebbe stato lanciato nel vuoto dal punto più alto del faro, per impedire che realizzasse altrove qualcosa di simile, oppure – ed è forse la versione più realistica – per evitare che richiedesse il compenso pattuito.

Prima della costruzione della torre, comunque, sullo spiazzo roccioso si bruciava la “brisca”, cioè steli di ginestra raccolti in massima parte a Briscata, in Val Bisagno. Falò analoghi venivano del resto accesi di notte lungo l’arco delle due riviere nei punti ritenuti più pericolosi per la navigazione. E’ curioso sapere che quando il mare era particolarmente agitato qualche buontempone si divertiva a soffocare le fiamme, ma non lo faceva affatto per gioco. Infatti, in quei tempi, veniva applicata la legge detta “Ius naufragi” che consentiva a chi arrivava per primo sul relitto di appropriarsi della barca e di tutto quello che conteneva. Con l’erezione della torre la brisca venne fatta bruciare in gabbie di ferro sospese, ottenendo così una maggiore visibilità dal mare. L’accensione di queste lanterne doveva essere effettuata a turno da tutti coloro che possedevano imbarcazioni.

Solo nel 1320, la Lanterna divenne davvero tale, con la sistemazione di lampade a olio. E pensare che due anni prima, nel 1318, rischiò, addirittura, di essere demolita. Infatti, Guelfi e Ghibellini, o Rampini e Mascherati, per indicarli con l’espressione genovese dell’epoca, si batterono attorno ad essa. Più precisamente i Rampini vi si rinchiusero, e gli avversari li sottoposero ad un bombardamento di pietre per due interi mesi. Trascorso questo periodo senza apprezzabili risultati, i Mascherati iniziarono a demolire le fondamenta della torre. I Rampini dovettero arrendersi, ma a malincuore, poiché senza il timore che tutto crollasse avrebbero potuto resistere all’interno del faro a tempo indeterminato, essendo riusciti ad escogitare uno stratagemma calando una fune dall’alto della torre stessa a una loro galea, oltre il cerchio degli assalitori: un uomo saliva e scendeva intrepidamente, entro una capace tinozza, assicurando il cibo e l’acqua agli assediati. Solo il tempo di eseguire le necessarie riparazioni, e l’assedio si ripeté: questa volta le parti si invertirono e furono i Mascherati a doversi asserragliare all’interno della Lanterna e ad essere, poco dopo, sconfitti.

Fortunatamente fu anche al centro di spettacoli piacevoli, fra i quali intrattenimenti che si svolgevano nel perimetro del porto. Celebri furono i “voli dalla Lanterna”, forse ispirati dall’antico guelfo della tinozza. Sicuramente, più drammatico fu l’episodio avvenuto nei primi anni del Cinquecento, quando Luigi XII, conquistata Genova, col risarcimento che aveva preteso decise di costruire una fortezza proprio a Capo di Faro. Il piano iniziale prevedeva la demolizione della Lanterna, ma una notevole regalia dei genovesi (esistevano già allora le bustarelle!) convinse l’ingegnere Beusserailhe, incaricato dal re di Francia a disegnare la fortezza, ad incorporarla nell’intero complesso difensivo. Il colosso fu denominato “Briglia” perché doveva essere utilizzato per acquietare i genovesi, ma non servì a molto visto che i cittadini riuscirono ad espugnarla nel 1514, dopo numerosi combattimenti. La Lanterna uscì malconcia dall’assedio e così venne ricostruita dalle fondamenta, ad opera di Giovanni Maria Oliati, nel 1549. Vennero sostituite le antiche merlature con balaustre ed arrivò a raggiungere l’altezza di 127 metri. Altre vicissitudini minarono la sua solidità, ma riuscì a superarle indenne: tra le altre ricordiamo il bombardamento navale del 1684 effettuato dalla flotta del Re Sole e i combattimenti del 1746 dopo la rivolta di Balilla in Portoria, per chiudere con le incursioni aeree dell’ultimo conflitto mondiale.

La Lanterna fu anche prigione, per ospiti d’eccezione: tra i più famosi il re di Cipro Giacomo di Lusignano, che con la moglie venne tenuto come ostaggio per molti anni e in quelle mura vide la luce, nel 1383,  il loro figliolo chiamato Giano. Come ultima curiosità, ricordiamo che tra guardiani della Lanterna fu, dal 1449, Antonio Colombo, zio di Cristoforo.

La sommità della Lanterna è raggiungibile mediante 375 gradini e dalla sua cupola viene emanato un fascio di luce bianca a raggi intermittenti per una portata luminosa di 33 miglia.

Da giardino a città industriale

Sampierdarena ha subito nel corso dei secoli numerosi cambiamenti sia a livello urbanistico, sia a livello sociale e questi due motivi di trasformazione sono andati di pari passo. Come abbiamo già accennato, i primi mutamenti avvennero all’inizio del secondo millennio, quando i pescatori e i contadini dell’antico borgo furono costretti a cambiare le loro attività divenendo scaricatori, maestri d’ascia, calafati ed altro per adattarsi alle attività, importate dalla città di Genova, della costruzione delle navi e dello scarico del sale. Nel XVI secolo, invece, Sampierdarena venne modificata a livello urbanistico trasformandosi da povero borgo, costituito perlopiù da piccole costruzioni, in sontuosa stazione di villeggiatura, ricca di ville e palazzi, divenendo uno dei luoghi più ambiti dell’aristocrazia italiana. Ma la rivoluzione che cambiò definitivamente il volto di Sampierdarena avvenne tra fine del ‘700 e gli inizi del 1800, quando le industrie cominciarono ad occupare spazi, allargandosi sempre più e creando sempre più lavoro. Lentamente, ma inesorabilmente, quello che una volta era il borgo di Sampierdarena divenne uno dei più importanti centri industrializzati dell’intera nazione e, probabilmente, d’Europa, tanto da farla definire la “Manchester d’Italia”.

Le prime attività imprenditoriali

Vanno considerate come antesignane dell’industria sampierdarenese le prime fabbriche di sapone, sorte tra il XVII e il XVIII secolo, anche se questi opifici erano situati su tutta la riviera genovese di ponente. Da Sampierdarena a Voltri esistevano anche numerosissimi laboratori di filati. Molto importante fu l’azienda di Francesco Rolla, sorta intorno al 1830, che disponeva di macchine prestigiose per quell’epoca e dava lavoro a trentadue operai.
Celebri, in questo settore, furono i fratelli Speich, giunti dalla Svizzera nel 1787, i quali impiantarono a Sampierdarena un’industria che stampava “mezzari” con nuove tecniche di tintoria, che come dicono le cronache di quel tempo erano talmente belli da essere “ricercatissimi da Musei e collezionisti privati”.
Sicuramente, la svolta di Sampierdarena verso l’industrializzazione avvenne con la costituzione delle prime aziende che lavoravano il ferro. Le prime a sorgere furono ferriere e fonderie di piccole proporzioni create da modesti imprenditori, che spesso vedevano i loro sogni di grandezza spegnersi contro il muro della realtà.
Il primo grosso complesso industriale nacque dall’iniziativa dei fratelli Balleydier, nel 1832, che crearono all’interno dello stesso stabilimento una fonderia ed un’officina meccanica. Da questa fabbrica, che inizialmente aveva due forni a manica con una macchina a vapore da otto cavalli utilizzato per la ventilazione, uscirono opere pregevoli tra le quali vanno ricordati il ponte di ferro sul Bisagno e quello sospeso di Serravalle. Lo stabilimento dei Balleydier proseguì con la sua opera per ben 75 anni, lasciando un segno indelebile nella storia del lavoro a Sampierdarena.
Intorno al 1840 giunse a Sampierdarena l’ingegnere inglese Taylor, che era stato direttore del cantiere navale di Marsiglia. Valutando attentamente la costituzione geografica della città propose al facoltoso uomo d’affari Fortunato Prandi di costituire un’azienda con officina meccanica e cantiere navale adatto alla costruzione di piroscafi in ferro.
Nel 1846, dopo aver ricevuto la concessione da parte dello Stato di costruire la fabbrica nella zona sull’argine sinistro del Polcevera (la Fiumara), nasceva la “Taylor & Prandi”, uno degli stabilimenti di maggior proporzioni e più all’avanguardia di tutta l’Italia.
Purtroppo, le buone iniziative dei due imprenditori non erano all’altezza delle possibilità economiche e nel giro di sette anni la fabbrica fu costretta a chiedere l’intervento dello Stato che, in quegli anni, era incentrato nella figura del Conte Camillo Benso di Cavour. Grazie al suo interessamento, l’azienda venne ceduta ad un prezzo di favore ad un gruppo d’imprenditori: Carlo Bombrini, Direttore della Banca Nazionale, Raffaele Rubattino, armatore di piroscafi a vapore, Giacomo Filippo Penco, finanziere, e Giovanni Ansaldo, un tecnico, che si assunse la responsabilità di unico socio accomandante e gerente della ditta.
Il nome Ansaldo divenne sinonimo di lavoro per i sampierdarenesi e non solo per loro, proprio per questo ne parleremo più ampliamente nel prossimo capitolo.
Prima di chiudere questa parte dedicata all’industrie di Sampierdarena, vanno ricordate altre attività che hanno contribuito a creare il mito della “Manchester d’Italia”: zuccherifici, iutifici e fabbriche chimiche, in particolare quelle che si occupavano della produzione della “biacca”.

Il porto a Sampierdarena

Come abbiamo visto, Sampierdarena a metà del 1800 era diventato un fiorentissimo centro industriale non solo grazie all’Ansaldo e alle altre industrie metallurgiche e metalmeccaniche, ma anche per tante altre piccole e grandi fabbriche che spaziavano in tutti i settori del lavoro. Grazie al fiorire di queste iniziative imprenditoriali cominciò ad intensificarsi l’attività commerciale e, con lo sviluppo economico, arrivò di conseguenza lo sviluppo demografico e topografico. Tutti questi fattori di crescita ponevano il problema di aumentare le possibilità produttive del Comune di Sampierdarena. Arrivò allora il momento di studiare qualcosa di nuovo (che di nuovo aveva ben poco visto che l’economia genovese si era basata per secoli su questa attività), sfruttando la lunga spiaggia che partendo dal Capo di faro arrivava fino alla riva del Polcevera: un nuovo bacino portuale. Il Municipio di Sampierdarena affidò l’incarico all’Ingegnere Pietro Giaccone di studiare le possibilità di costruire un “porto succursale” nel 1874 e l’anno successivo arrivò la concessione dall’amministrazione del Regno per la costruzione del bacino. Purtroppo, questioni politiche e d’interesse ritardarono per decine di anni i lavori di costruzione del porto industriale sampierdarenese. Questo avvenne dopo la costituzione del “Consorzio Autonomo del Porto di Genova” che nel 1927 approvò in un’assemblea l’allargamento del porto di Genova con la costruzione di “cinque sporgenti, della lunghezza di 400 metri e larghezza variante tra i 130 e i 150 metri, nello specchio acqueo di Sampierdarena, protetto mediante un prolungamento verso ponente della diga già esistente a difesa del bacino della Lanterna e la costruzione di un molo alla foce del Polcevera”.
I lavori terminarono nel 1936; la lunghezza delle banchine del porto di Genova salì a 16.000 metri lineari.

Monumenti e miti che il tempo ha cancellato

Dopo aver raccontato un po’ di storia di Sampierdarena, dall’antichità al mito di “Manchester d’Italia”, in questo capitolo vogliamo parlare di tutto ciò che esisteva nella nostra piccola città, ma che tempo, guerra, incuria e progresso hanno eliminato. Come abbiamo già raccontato in un precedente capitolo moltissime ville dell’epoca d’oro di Sampierdarena sono andate distrutte o gravemente danneggiate, così come la magnifica spiaggia che andava da un capo all’altro della città ha lasciato il posto ai moli del porto in nome del lavoro e dello sviluppo. Piccoli borghi di campagna, come Promontorio e Belvedere, hanno perso la loro antica identità per lasciare posto a quartieri popolari costruiti in maniera selvaggia nel periodo dell’incremento demografico e della speculazione edilizia. Quartieri storici, quali la Coscia e il Canto, sono completamente scomparsi prima per l’invasione industriale e poi per il rimodernamento di tali aree che erano divenute uno squallido ricettacolo di degrado e disperazione.

Molti monumenti storici sono andati distrutti nel corso dei secoli e, in particolare le chiese: la più antica e quella di Sant’Agostino della Cella, che non è stata completamente cancellata, ma è ormai ridotta ad un rudere difficilmente recuperabile, anche se attualmente l’Amministrazione Pubblica sta cercando di ristrutturarla. La tradizione indica questo tempietto quale primo edificio sacro costruito in onore del loro patrono, San Pietro, dagli abitanti del luogo, da qui il nome del borgo: San Pier d’Arena. Il nome della chiesetta cambiò in Sant’Agostino nel 725, quando il re Liutprando la fece ricostruire dalle fondamenta in memoria del passaggio delle reliquie del Santo. E’ una piccola chiesetta rettangolare, ad unica navata, che dell’epoca più antica conserva la struttura dell’abside. Il piccolo tempio si trova a circa 1,70 mt. Sotto il livello della strada ed ha subito, nel corso del tempo, notevoli trasformazioni. La decorazione risale al Duecento e comprende un ciclo di affreschi raffiguranti “Cristo tra gli Apostoli” attribuiti ad un ignoto pittore detto il Maestro di Sampierdarena; attualmente queste opere, peraltro le uniche arrivate ai nostri giorni, sono conservate all’interno della Chiesa della Cella.

Altre pievi medievali andate distrutte sono quelle di San Giovanni di Borbonoso e di Santa Maria del Santo Sepolcro, ma, sicuramente, la più celebre, almeno per il suo valore storico, e quella di San Martino al Campaccio (l’attuale Campasso), dove avvenne l’elezione dei primi tre consoli e la costituzione del Comune di Sampierdarena. L’antica chiesa a tre navate e con nove altari, risalente al secolo XI, restò in funzione fino al 1799 e per tutto l’800 fu utilizzata come parcheggio di carri e stalla per i cavalli.

Di grande valore storico era l’antica Abbazia di San Bartolomeo del Fossato, rasa completamente al suolo dal bombardamento del 4 giugno 1944. L’edificio sacro con l’annesso monastero venne costruito nel 1064 dai Monaci Vallombrosani e nel corso dei secoli divenne uno dei monumenti storici più venerati di tutta la Liguria. 

I forti: una passeggiata nella storia

Il nostro viaggio per Sampierdarena inizia dalla sua zona più alta, quella dove si trovavano le cinte murarie e le fortificazioni della città di Genova. Ancora oggi, da Promontorio a Belvedere, è possibile, percorrendo sentieri e mulattiere, osservare alcuni forti che sovrastano la città e che ci fanno capire quanto fosse importante la posizione strategica di Sampierdarena per la difesa del centro urbano.

Il primo che incontriamo è il Forte di Promontorio, detto “Tenaglia”, situato a 216 metri di quota. Per accedere al forte si abbandona via Bartolomeo Bianco nel momento in cui questa passa tangente alle mura; dopo aver percorso un tratto dissestato, si incontrano e si superano le mura attraverso un passaggio che si conclude all’ingresso del forte, presso il ponte levatoio. La costruzione di un primo castello, chiamato dagli abitanti del luogo “Prementone”, si fa risalire al XV secolo e la sua demolizione al 1632, anno in cui furono terminate le cinte murarie. Questa primitiva struttura difensiva comprendeva due torri ed un perimetro murario con quattro bastioni. Sulle rovine di questo fortilizio, tra il 1642 e il 1651, fu edificato il “Tenaglia” ad opera di Giovanni Spinola con la sovrintendenza dei lavori di G.B. Poissievier. La costruzione domina tutta la Val Polcevera e la zona di Coronata e confina, a levante, con il Cimitero della Castagna. Nel 1800, il forte fu utilizzato dagli austriaci come deposito di artiglieria e, tra il 1805 e il 1814, con l’annessione di Genova alla Francia napoleonica, divenne “un elemento autonomo delle mura, munito di un corpo di guardia al centro della piattaforma”. Il Governo Sardo, vista l’importanza difensiva del forte, dispose un restauro nel 1815, ampliandolo con una caserma ed una nuova polveriera, dandogli quella che è l’attuale forma architettonica. Il Forte “Tenaglia” fu molto importante durante i moti genovesi del 1849 e nell’ultimo conflitto mondiale, quando era sede di un’importante batteria antiaerea, fu colpito molte volte dai bombardamenti alleati che danneggiarono molti punti delle mura e della sua “tipica struttura a corno”.

Poco più in basso, ad un’altezza di 120 metri, si trova il Forte di Belvedere, detto “Lunetta”, al quale si accede dopo aver percorso corso Martinetti percorrendo via Belvedere, presso la zona dove attualmente si trova il Campo Sportivo “M. Morgavi”. Un secondo accesso pedonale al forte è rappresentato dalla salita G. B. Millelire, raggiungibile, per chi proviene da Certosa, da via Walter Fillak. Queste fortificazioni, terminate di costruire nel Maggio del 1748, si estendevano un tempo su un’ampia area, che partiva dall’edificio fortificato per arrivare fino alla foce del Polcevera. L’edificazione della fortificazione vera e propria risale, però, al 1815 ad opera del Corpo Reale del Genio piemontese. La struttura era massiccia, articolata su tre piani. Il forte fu realizzato a forma di “lunetta”, in altre parole con una vasta pianta pentagonale innestata in maniera asimmetrica con la casa – fortezza. Attualmente, restano soltanto le antiche murature di base, dal momento che il forte subì alcune trasformazioni durante la seconda guerra mondiale e per la costruzione del campo di calcio.

Il forte che, certamente, ha mantenuto la migliore conservazione è il “Crocetta”, posto poco lontano dal “Lunetta” in direzione di Certosa, ad un’altezza di 157 metri, sopra uno sperone che domina la Val Polcevera. Per raggiungere il forte si percorrono corso Martinettisalita Belvedere e la salita al Forte Crocetta: si entra, poi, nella fortezza attraverso un ponte di pietra sul quale poggia il ponte levatoio, in parte integro. Le prime notizie su questo forte si hanno nel 1748, ma di certo si sa che fu ricostruito dalle fondamenta nel 1827. Ancora oggi sono visibili le grandi opere in pietra e un ampio fossato posto a difesa delle fortificazioni. Tre lati ospitavano i pezzi di artiglieria coperta, mentre quello rivolto verso valle, protetto da un terrapieno e da massicce mura, era armato da pezzi in superficie. La sua forma cubica imponente lo fa assomigliare più ad un “bunker” dell’ultimo conflitto che a un fortilizio del primo Ottocento. L’edificio, pur essendo completamente abbandonato, è comunque in condizioni discrete, motivo per cui un’opera di ristrutturazione sarebbe quanto mai urgente e necessaria.

Sampierdarena oggi: le strade e gli uomini

La zona a mare (prima parte)

Il confine a levante di Sampierdarena è quello che un tempo era costituito fisicamente dalla collina di San Benigno, abbattuta nel 1929, per permettere una maggiore viabilità e, nello stesso tempo, una continuità geografica per quella che sarebbe diventata la “Grande Genova”. La delegazione comincia, quindi, al termine di via Milano, dove la strada si biforca, creando due larghe strade: una a ridosso del mare, via di Francia, e l’altra che sale, via Cantore.

Il Matitone

Via di Francia, fino a qualche anno fa, ospitava piccole officine meccaniche ed aziende di trasporto, mentre in questi ultimi anni ha acquisito un’importanza notevole quale centro nevralgico delle attività imprenditoriali pubbliche e private dell’intera città. All’inizio di questa strada sorge il “Matitone”, che, dopo essere stato per diversi anni sede d’importanti aziende nazionali, presto diventerà il distaccamento principale degli uffici comunali.

Poco più avanti si trova il “complesso di San Benigno”, dove spicca per la sua caratteristica architettura innovativa il “World Trade Center” che può essere considerato uno dei maggiori centri direzionali di tutta Italia.

Alle spalle di questo modernissimo polo si trovano via Balleydier e l’ultimo tratto di via De Marini, che facevano parte dell’antico e popoloso quartiere della Coscia. In questi ultimi tempi, le ruspe hanno lavorato alacremente per cancellare questo passato e dei vecchi palazzi ne resta in piedi uno soltanto che, presto, sarà abbattuto per permettere l’allargamento del centro di San Benigno.

Da via Balleydier, proseguendo verso ponente, s’incontra via Pietro Chiesa.

– Pietro Chiesa, fu il primo deputato socialista eletto in Liguria nel 1897. Nativo di Casale, si trasferì giovanissimo nell’allora industriosa Sampierdarena e, aderendo alla “Società Operaia Universale”,  divenne un convinto assertore delle rivendicazioni della classe operaia.

Questa via era considerata la strada dei “docks”, perché lì sorgevano numerosi magazzini dove erano stipate le merci scaricate sui moli del porto e, ancora oggi, Via Pietro Chiesa è sede dello storico “Circolo dei Carbonai”, che deve il suo nome non ai celebri cospiratori del Risorgimento, ma al fatto che i soci erano tutti scaricatori di carbone.

Via di Francia e via Pietro Chiesa terminano sfociando in piazza Barabino.

– Nicolò Barabino, nacque a Sampierdarena nel 1832. Giovanissimo fu costretto ad abbandonare la scuola per aiutare il padre nella sua attività di sarto. Dimostrò precocemente indubbie qualità nel campo della pittura e il padre decise d’iscriverlo, a dodici anni, all’Accademia Ligustica di Belle Arti. Le sue grandi capacità vennero da subito apprezzate e a venticinque anni dipinse il sipario del teatro “Gustavo Modena”, l’Apoteosi dell’Ariosto, una tela di 140 metri quadri popolata da più di cento personaggi a grandezza naturale. Dopo poco, si trasferì a Firenze, continuando a mantenere uno stretto legame con la sua città natale dove tornò ogni anno per le vacanze estive. Fu un pittore molto prolifico: tra le sue opere vanno ricordate l’affresco del soffitto del Teatro Carlo Felice di Genova e la stupenda tela della Madonna degli Ulivi, conservata nella chiesa di Santa Maria della Cella. Morì a Firenze il 19 Ottobre 1891.

Piazza Barabino era anticamente denominata piazza Bovio ed era considerata uno dei “salotti buoni” di Sampierdarena. Lì si trovavano eleganti “caffè” e splendidi negozi prospicienti le spiagge che erano situate nell’attuale zona di Via Sampierdarena e Lungomare Canepa.

Da piazza Barabino si prosegue per via Buranello.

– Giacomo Buranello, Medaglia d’Oro alla Resistenza, nacque a Venezia nel 1921 e si trasferì giovanissimo a Sampierdarena in Via Leon Pancaldo. Dopo il Liceo s’iscrisse alla Facoltà d’Ingegneria, dove organizzò nuclei giovanili contro il fascismo. Venne arrestato nel 1942 e liberato nell’Agosto del ’43. Tornato a Genova costituì un Gruppo d’Azione Patriottica, compiendo numerose azioni in città. Nel 1944 durante uno sciopero venne individuato dai nazi-fascisti che cercarono di arrestarlo. Dopo un sanguinoso scontro, nel quale riuscì ad uccidere tre nemici, venne nuovamente arrestato e, dopo un sommario processo, torturato e poi fucilato.

Parallelamente a via Buranello, verso, il mare, si trovano via Sampierdarena (ex via Colombo, detta la “Strada dei Bagni”) e Lungomare Canepa (dove esisteva solo la spiaggia).

Il Palazzo del Municipio

A metà di via Sampierdarena c’è il Palazzo del Municipio, dove sorgeva anticamente il Castello, centro politico e sociale della Sampierdarena medievale. Poco distante si trova il “Baraccone del sale”, un vetusto magazzino da anni dimesso, attualmente occupato da un centro sociale.

Trasversalmente a via Buranello e via Sampierdarena sono situate alcune strade di grande rilevanza. Una di queste è via Giovanetti dove è situata la chiesa di Santa Maria della Cella, il tempio cristiano più importante della delegazione. L’edificio si colloca tra la linea di costa e la via “delle ville”: è facile intuire, dunque, le ragioni per cui tale chiesa si configurò, già a partire dal Medio Evo, come la principale del borgo sampierdarenese. Le prime pietre furono posate all’inizio del XIII secolo sulla preesistente chiesa dell’anno Mille: la costruzione avvenne tra il 1206 e il 1213 per volontà di Jacopo del Borgo e Battistella Doria. La chiesa sorse, quindi, come tempio di famiglia, sotto il patronato dei Doria. Fu proprio Bartolomeo Doria che si occupò, nel 1453, del restauro resosi necessario in seguito ad anni di abbandono dell’edificio. La forma definitiva è del 1600: dalla fine del XVI secolo, infatti, i Doria iniziano a trasformare il volto gotico della chiesa costruendo la cupola e sistemando il coro con gusto manieristico. Nell’800 viene allungata la navata, e Angelo Scaniglia dà forma neoclassica alla facciata marmorea. Le decorazioni interne sono opera di Nicolò Barabino; le porte bronzee, del 1966, sono di G.B. Semino e G.B. Araldi. La chiesa presenta una struttura basilicale a tre navata separate da massicci pilastri. L’aspetto interno risente dei rivestimenti marmoreei e delle decorazioni dorate tipicamente barocche. Pregevoli le “Scene di Vita di Maria” di Bernardo Castello e la “Madonna col Bambino e San Giovanni” di Luca Cambiaso,  nonchè le numerose opere del sampierdarenese Barabino. La volta del presbiterio è affrescata da Domenico Fiasella: al noto pittore gli Agostiniani commissionarono, nel 1650, la rappresentazione dei ” Misteri di Maria” in dieci medaglioni. Al terzo altare si conserva un’immagine dipinta su roccia raffigurante “Il Salvatore che porta la Croce”. La leggenda dice che l’opera fu di un soldato fiammingo che raffigurò il Santo, sopra un masso sulla rupe del colle di San Benigno. Nel 1722 il masso fu distaccato e trasportato nella chiesa parrocchiale di San Martino al Campasso e nel 1799, dopo la quasi totale distruzione di quella pieve, trasferito nella chiesa della Cella, dove ancora oggi si può ammirare.La traversa successiva è via della Cella. La parte bassa è caratteristica perché è uno stretto vicolo con case che ricordano l’antico borgo di Sampierdarena, quando questa zona era il centro del Comune. Nella parte che sale verso l’alto si trova la Croce d’Oro, una delle più antiche Pubbliche Assistenze d’Italia: “Il 29 Luglio 1898 un manipolo di giovani, ispirato da nobili sensi di filantropia e di carità, iniziò in Sampierdarena un servizio di Pubblica Assistenza sotto il titolo di Croce d’Oro”. Il sodalizio non nacque dove attualmente si trova la sede, ma nel Bar Crespi, in via Colombo, l’attuale via Sampierdarena, grazie all’idea di sette uomini che, trovandosi spesso a passare le ore libere intorno ad un tavolo di un caffè, decisero di dedicare il loro tempo di distacco dal lavoro per aiutare il prossimo nei momenti di estrema necessità.

La zona a mare (seconda parte)

Prima di continuare questo viaggio verso ponente, siamo costretti a tornare indietro dove, imboccando a destra la prima traversa di via di Francia, troviamo via Dottesio e la seguente via Daste, l’antica strada delle ville degli anni d’oro di Sampierdarena.

La chiesa di Santa Maria delle Grazie

In via Dottesio si trova la chiesa di Santa Maria delle Grazie, che fu un’antica cappella edificata dal nobile Guglielmo Cybo nel 1289. In seguito venne ampliata divenendo una grande chiesa detta volgarmente “quella della Coscia”. Furono i “minolli” di quel quartiere a finanziare la costruzione di una nuova chiesa che fu benedetta nel 1849. L’attuale edificio sacro è stato costruito nel 1926 ed inaugurato nel 1929 su disegni dell‘ingegner Pietro Barbieri. I bombardamenti del ’42 e del ’44 guastarono molti affreschi di Gio Raffaele Badaracco e Lorenzo Brusco e distrussero completamente un prezioso Crocifisso ligneo.

– Nicolò Daste, nacque a Sampierdarena il 2 marzo 1820 da una famiglia agiata. Fin da giovanissimo sentì l’impulso per il sacerdozio e a quattordici anni, sotto la guida di Don Bartolomeo Ansaldo, iniziò gli studi teologici. Purtroppo, dopo un anno perse il padre e dovette rinunciare, almeno momentaneamente, ai suoi progetti sacerdotali. Cominciò così a fare l’operaio, prima lavorando nel cantiere che stava costruendo il Teatro “Gustavo Modena” e poi nella fabbrica “Testori e Speich” dove si facevano i famosi mezzari. A ventidue anni perse anche la madre e, pur contrastato dal resto della famiglia, decise di prendere i voti. Il 24 Giugno 1867 venne ordinato sacerdote e cinque giorni dopo celebrò la prima messa nella chiesa di Santa Maria della Cella. A Sampierdarena, Don Daste si dedicò al problema delle ragazze orfane, alle quali offrì un rifugio ed un sostentamento grazie ad un locale che aveva ottenuto da persone generose. Cominciò a girare per le case a chiedere qualcosa che fosse d’aiuto a quelle giovani sfortunate. Ben presto la sua figura fu conosciuta in tutta la Val Polcevera e, vista la sua generosa opera, il Sindaco di Sampierdarena decise di assegnare alla sua fondazione un sussidio del Comune.

Il mercato di piazza Treponti negli anni ’70

Degli antichi palazzi e dei relativi splendidi giardini di via Daste abbiamo parlato in un precedente capitolo e, quindi, ricordiamo che lungo questa via si incontrano altre zone importanti per la delegazione. Tra queste, piazza Treponti dove ogni lunedì e venerdì si svolge un mercato ricco di bancarelle che offrono una vasta gamma di prodotti, mentre ogni giorno nel mercato coperto vengono venduti prodotti ortofrutticoli freschi.

Al termine di via Daste, dopo via Giobertivia Castellivia Giovanetti e via della Cella, si trova via Carzino, dove sorge una delle associazioni più amate dai sampierdarenesi: la “Società Operaia di Mutuo Soccorso Universale Giuseppe Mazzini”, fondata nel 1851. Nacque così nella piccola città un gruppo che si dedicava al miglioramento delle condizioni economiche ed alla cura dell’istruzione popolare.  L’azione degli operai di Sampierdarena – che clandestinamente lavoravano nei quadri delle organizzazioni mazziniane – era ufficialmente di carattere assistenziale e mirava ad affrontare e risolvere alcuni dei maggiori problemi del lavoro. Da ricordare è il contributo dato, da questi gruppi, all’opera coraggiosa di soccorso ai colpiti dal colera nel 1854-55. Negli anni successivi venne concretato un antico progetto: riunire in un unico sodalizio tutti i gruppi operai. Nel Palazzo Boccardo, della antica villa Centurione, l’Associazione – così venne a chiamarsi il nuovo nucleo delle società operaie – aprì le scuole elementari serali e i corsi di disegno meccanico ed ornamentale. Il 5 maggio 1860, alcuni soci partirono per unirsi ai Mille di Garibaldi, ma non riuscirono, per un contrattempo, ad unirsi al grosso delle Camice rosse; si unirono però alle altre imprese nel meridione d’Italia. Ad attestare il proprio indirizzo politico l’Associazione nominò soci onorari Mazzini e Garibaldi. Gli operai di Sampierdarena vennero ricordati, per la loro attività, dallo stesso Mazzini in una lettera conservata, ancor oggi, nell’archivio dell’Universale. L’Associazione di Mutuo Soccorso, instancabile in campo sociale, si costituì negli anni dopo il ’60 una propria banca operaia che prese il nome di Banca Popolare: essa vivrà fino al 1925 quando sarà incorporata dalla Banca di Novara. Tale Associazione dal 1863 al 1866 continuò a lavorare assiduamente per Roma e Venezia, raccogliendo fondi, organizzando quadri per l’azione, svolgendo attività di propaganda, a diretto contatto con Mazzini, Garibaldi. Campanella, Quadrio, Saffi, rappresentando uno dei punti di forza del partito repubblicano. Dopo alcuni scioglimenti e ricostituzioni l’Associazione riuscì a portare in parlamento il primo deputato operaio: Valentino Armirotti. Tra i suoi soci figurò pure Nicolò Barabino.

Il Teatro Modena

Uscendo da via Carzino, lato mare, si incontra piazza Gustavo Modena, celebre per il suo teatro, recentemente restaurato e riportato agli antichi fasti. Il Teatro Modena fu costruito nel 1857 su disegni di Nicolò Bruno, con un sipario di Nicolò Barabino, raffigurante “L’apoteosi dell’Ariosto”. Inaugurato nel corso dello stesso anno con l’opera “Tutti in maschera” di Pedrotti, conobbe grandi successi, nella lirica e nella prosa, e ospitò le più accreditate compagnie, in certe stagioni vincendo persino la concorrenza coi primari teatri genovesi. L’inesorabile decadenza fu una prima volta evitata negli anni ’20, con radicali ammodernamenti che consentirono al Modena una seconda giovinezza; poi il declino si fece in inarrestabile, e nel 1936 il teatro fu trasformato in sala cinematografica. Col passare degli anni l’edificio fu completamente abbandonato, rischiando, addirittura, di divenire un supermercato. La volontà e l’abnegazione di alcune associazioni sampierdarenesi e, soprattutto, della compagnia del “Teatro dell’Archivolto”, hanno permesso al “Modena” di tornare ad essere quello splendido tempio dell’arte che era una volta.

Ai lati del teatro ci sono due strade: una a sinistra, via Ghiglione, e una a destra, via del Monastero, che sfocia nell’omonima piazza. In via Ghiglione, fino a qualche anno fa, si trovava il mercato ortofrutticolo all’ingrosso, ora la palazzina del complesso è stata ristrutturata e adibita a centro per attività socio-culturali.

Piazza del Monastero prende il nome dal convento esistente prima della costruzione di Villa Centurione, di cui abbiamo parlato nel capitolo dedicato ai palazzi sampierdarenesi. Il monastero era intitolato al Santo Sepolcro e fu abbandonato dalle monache Cistercensi nel 1522. Da piazza del Monastero, alla sinistra del palazzo, imboccando uno stretto vicolo, vico della Catena, così chiamato perché, un tempo, era delimitato da una catena che limitava il passaggio dei carri, ci si ritrova in una delle più belle piazze di Sampierdarena : piazza Vittorio Veneto (nella foto), un tempo Piazza Omnibus. Dietro a questa ampia ed elegante piazza se ne trova un’altra più piccola, ma molto caratteristica, piazza Settembrini. Le strade più a ponente di Sampierdarena sono: via Dondero, che parte da piazza Vittorio Veneto per arrivare in via Pacinottivia Fiumara, l’antica zona delle fabbriche meccaniche della “Manchester d’Italia”, e via Pieragostini che termina sul ponte di Cornigliano sopra il Polcevera e che segna il confine geografico della piccola città.

La zona centrale (prima parte)

Via Cantore negli anni ’70, quando si facevano le “vasche”

La parte centrale di Sampierdarena comprende via Cantore , la strada principale, e tutte le strade limitrofe, che scendono verso la zona portuale e che salgono verso la collina.

– Antonio Cantore, fu un valoroso generale alpino. Nacque a Sampierdarena il 4 Agosto 1860 e fin da giovanissimo decise d’intraprendere la carriera militare. A vent’anni era già sottotenente, ma la sua scalata ai gradi più alti fu lenta e solo a cinquantadue anni raggiunse la nomina a colonnello. Fu in quel periodo, nel 1912, che Cantore dimostrò tutte la sua abilità di stratega. Le prime grandi prove le fornì in Libia combattendo le bande ribelli e quando allo scoppio del primo conflitto mondiale fu richiamato in patria venne promosso generale ed assegnato alla II Brigata Alpina, con la quale occupò il Monte Baldo. L’8 Giugno del 1915 diventò comandante della II Divisione della IV Armata in Cadore, dove elaborò un piano per la conquista delle Tofane. Il 21 Luglio, per essersi sporto imprudentemente da una trincea, fu colpito in fronte da una pallottola nemica che lo uccise.

Via Cantore è una lunga strada che parte da via Milano per giungere in piazza Montano. Dopo un primo tratto in salita ci si ritrova al bivio per l’ingresso autostradale di Genova – Ovest, il più importante di Genova. Poco più avanti, sulla destra, s’imbocca via San Bartolomeo del Fossato, l’antica mulattiera che saliva al Promontorio. Ora è una strada larga, ricca di palazzi, all’inizio della quale sorge la chiesa di San Bartolomeo del Fossato, nata dalle macerie dell’antica Abbazia distrutta dal bombardamento del 1944. L’attuale edificio, costruito su disegni dell’architetto Erio Panarali, venne terminato nel 1960. La chiesa non ha mai perduto il titolo di Abbazia che le fu ufficialmente riconosciuto nel 1900. All’interno è conservato un prezioso polittico del 1380 di Barnaba da Modena, importante testimonianza d’arte gotica. Proseguendo per via Cantore, in direzione ponente, incontriamo, sempre sulla destra, via Balbi Piovera che conduce all’Ospedale “Onofrio Scassi”, il nosocomio di Sampierdarena, uno dei più grandi di tutta Genova.

Subito dopo ia Balbi Piovera si trovano i giardini di Villa Scassi, i quali facevano parte, un tempo, del grandissimo parco che circondava Palazzo Imperiale. Questi giardini nel periodo del “Rinascimento” sampierdarenese erano vastissimi e partivano dal mare per arrivare sino alla collina. La villa, infatti, aveva l’ingresso principale prospiciente la spiaggia e, ai lati e sul retro, il parco saliva in una miriade di sentieri tra alberi ed aiuole; caverne con statue mitologiche e grandi fontane creavano un ambiente fantastico e surreale. Attualmente, i giardini sono in fase di ristrutturazione per essere riportati ai fasti di un tempo; è comunque ancora possibile ammirare le grandi vasche, gli antri artificiali, le scale e i sentieri di mattoni rossi.

Nei primi anni del ‘900 la parte centrale del parco venne demolita per costruire il campo di calcio della “Sampierdarenese”. Lo stadio soprannominato “Bomboniera”, per la sua accogliente struttura, fu raso al suolo per la costruzione di Via Cantore.

Proseguendo verso ponente s’incontra, a destra, una strada in salita: corso Martinetti, che è la via che conduce a Belvedere.

Salendo per circa cinquanta metri e girando a sinistra, ci si ritrova in via G.B. Monti, dove si può ammirare la maestosa chiesa di Nostra Signora del S.S. Sacramento, un edificio in stile gotico lombardo costruito nel 1929 dall’architetto Adolfo Zacchi di Milano, con gli affreschi di Angelo Vernazza e i disegni delle artistiche vetrate ad opera del professor Zuccaio. All’interno della chiesa si possono ammirare pregevolissimi marmi e profuse dorature, oltre a dieci splendide colonne di granito che sorreggono la volta. L’edificio durante la seconda guerra mondiale, a causa dei bombardamenti aerei, riportò notevoli danni che portarono alla distruzione delle grandi finestre della facciata, del mosaico del portale e delle artistiche vetrate principali dell’abside.

– Gian Battista Monti, nacque a Sampierdarena nel 1797, l’anno della proclamazione della Repubblica Ligure. Entrato nel 1814 all’Accademia Ligustica di Belle Arti fu subito riconosciuto come uno degli allievi migliori. Spinto dalla grande passione per l’arte si trasferì a Roma per potersi confrontare con i migliori artisti dell’epoca, partecipando al concorso di pittura dell’Accademia di San Luca, dove dominava la figura di Antonio Canova. In pochissimi giorni fu in grado di realizzare un “San Gerolamo” a grandezza naturale che gli procurò gli elogi e l’ammirazione dei critici romani. Iniziò a lavorare alacremente dipingendo opere d’altissimo livello che nell’800 furono vendute in America. Quando il successo cominciava a dargli enormi soddisfazioni morì a soli ventisei anni. Sulle cause della sua morte non si hanno notizie certe, anche se molti, all’epoca, sostennero che fosse stato avvelenato da un collega invidioso, che poi morì il giorno dopo precipitando in un burrone. E’ più verosimile la versione secondo la quale il decesso fu causato, visto il temperamento irrequieto dell’artista, da un ictus provocato dalla tensione e dall’eccessivo lavoro.

La zona a monte

La parte alta di Sampierdarena può essere suddivisa in due zone distinte: Promontorio e Belvedere.

Per raggiungere Promontorio bisogna salire via San Bartolomeo del Fossato, nella zona compresa tra la Porta degli Angeli, dove si conclude la cinta muraria del XVII secolo, e il Belvedere. In passato questa zona era celebre per essere un punto fortificato fondamentale in difesa della città contro gli eserciti provenienti dalla val Polcevera. In cima al colle si erge la chiesa Vicaria Abbaziale di San Bartolomeo di Promontorio. Questo è, certamente, uno dei tempi sacri più antichi di Sampierdarena; infatti, le sue origini si fanno risalire alla seconda metà dell’XI secolo, quando i monaci Vallombrosani si sistemarono in quella zona costruendo due monasteri, uno a fondo valle, detto Fossato, e l’altro appunto in cima al colle, detto di Promontorio o della Costa. Affinità nella struttura architettonica delle due chiese evidenziano un analogo periodo costruttivo, assegnando all’Abbazia di Promontorio una fondazione più recente di circa un ventennio rispetto a quella di San Bartolomeo del Fossato. La chiesa di Promontorio fu, quindi, una succursale di San Bartolomeo del Fossato per la cura delle anime nella circoscrizione, raccogliendo i fedeli impossibilitati a frequentare la sottostante Abazia. La chiesa sorse secondo un disegno insolito a croce latina commissa, con una sola navata, la torre campanaria appoggia sulla crocera centrale del transetto, mentre due archi obliqui raccordano l’esagono che serve da cella ed è coperto da una piramide ottagonale in mattoni. Nel punto in cui il campanile emerge dai tetti fu creato un basamento di pietra  squadrata per proteggere  il campanile dalle intemperie e dalla violenza del vento, particolarmente intenso nella zona. Nel 1580 vennero apportate all’edificio modifiche a cura di Bartolomeo Centurione. Mutamenti più sostanziali ci furono tra la fine del Settecento ed i primi decenni dell’Ottocento,  quando  nel 1844 furono ultimati il presbiterio e l’attuale sacrestia dal rettore Francesco Rivara. Tra i motivi architettonici di maggior rilievo è il passaggio dalla forma esagonale a quella ottagonale nel campanile, ottenuto con genialità di accorgimenti. Scrostamenti operati in alcune zone dell’interno hanno rivelato le superstiti strutture medioevali, favorendo una ricostruzione ideale della chiesa secondo i caratteri originari. Certamente la navata era coperta da un tetto con falde a capanna e la volta a botte, oggi esistente, fu aggiunta nel secolo XVI. Presso la chiesa di San Bartolomeo di Promontorio sono conservati due pregevoli Crocefissi: in particolare quello detto “moro” è notevole per la qualità dell’intaglio e per le grandi dimensioni. La chiesa ospitò, durante il periodo napoleonico, molte opere d’arte di  appartenenza ecclesiastica, raccolte per esser salvaguardate dalle spogliazioni operate nei maggiori centri religiosi.

Discendendo dal Promontorio, dopo aver attraversato via Mura degli Angeli e il piazzale del Cimitero della Castagna, ci si ritrova in corso Martinetti, dal quale si risale sulla destra al Belvedere.

Gli antichi genovesi denominarono questa località “Belovidere” dal momento che ospitava una ridente vegetazione con ville e giardini in cui i cittadini erano soliti trascorrere le ore di libertà. Tuttavia non mancò di essere funestata dalle lotte tra le fazioni Guelfe e Ghibelline del XIV secolo e, lungo il corso dei secoli successivi, dai molteplici passaggi delle truppe straniere. Su questa altura, nel 1507, si difese vanamente Leonardo Monteacuto dall’assalto delle truppe di Luigi XII e finì col ritirarsi dando fuoco alle polveri. Nel 1746 vennero piazzati sul colle dodici cannoni, la cui presenza pesò sulla decisione dello Schulemburg di desistere da ulteriori attacchi e di lasciare definitivamente libero il suolo di Genova. Nel 1797 gli insorti che si erano asserragliati nel forte Tenaglia furono qui decimati e debellati dalle truppe francesi del Dophot. Ancora nel 1819, nel programma di rafforzamento del sistema  difensivo della città, venne costruita una fortezza: il forte di Belvedere. Nel 1848 entro queste mura si difesero a lungo i rivoluzionari genovesi contro le truppe del Lamarmora, stanziate in San Benigno.

Sulla piazza in cima al corso si trova la chiesa di N. S. di Belvedere. Alla fine del XIII secolo alcune suore Agostiniane decisero di erigere il loro convento con accanto una piccola chiesa le cui modeste proporzioni rivelavano lo stato di umiltà nel quale si erano ritirate pur appartenendo a famiglie della più alta aristocrazia. Un antico documento ci mostra che già nel 1285 l’edificio era indicato col nome di Sancte Marie de Bervei de Janua. A causa delle ripetute lotte, che spesso turbarono la serena quiete del convento, le suore decisero, verso la metà del secolo successivo, di trasferirsi nel monastero della Consolata, nei pressi di S. Giovanni di Prè vendendo il cenobio di Belvedere al patrizio Leonardo Cattaneo il quale, dopo averlo provvisto degli arredi sacri, lo diede in dono ai frati di Sant’Agostino. La chiesa, composta di una unica navata, subì una serie di rifacimenti e nel 1665 venne completamente ristrutturata ed arricchita dei due altari laterali. Le pareti del presbiterio sono ornate da due grandi tele: “Sant’Agostino ed altri santi” di Gio Raffaele Badaracco e  “Martirio di Sant’Orsola” di Anton Maria Piola. Nell’altare di sinistra si ammirano la “Madonna degli angeli” di Simone Bambino e un “San Giuseppe” di autore ignoto; nelle pareti  laterali i “Quattro Evangelisti” dipinti su tondi da un autore genovese del XVII secolo ed un altro dipinto di autore sconosciuto, raffigurante la Madonna (probabilmente di scuola pisana del XIV secolo). La natività della Vergine, che cade l’8 Settembre fu particolarmente celebrata a Genova dopo la vittoria di Curzola (7 Settembre 1298) per cui il Senato stabilì che ogni anno, in occasione di tale ricorrenza, i governatori di Genova deponessero sull’altare della Madonna, nella chiesa di San Matteo, un pallio d’oro a perenne ringraziamento. La chiesa di Belvedere divenne Santuario e ad ogni visitatore, per speciale concessione del Papa Pio IV (XVI secolo), veniva accordata un’indulgenza in perpetuo ed assunse tale importanza che per la festività, venivano rilasciati dal governo, speciali salvacondotti di sei giorni a quei fuoriusciti che intendevano parteciparvi. Molte erano le famiglie che avevano nella chiesa le proprie tombe le cui lapidi, che coprivano il pavimento rifatto in marmo nel 1908, vennero rimosse per essere poi infisse sulle pareti del contiguo Oratorio.

Testi a cura di Stefano D’Oria e Sara Gadducci

Foto storiche dall’archivio del “Gazzettino Sampierdarenese”
(realizzato nel 2000, ultima modifica giugno 2004)