Il mito dei giardini di Villa Scassi

Per me, nato nella seconda metà degli anni ‘50 del secolo scorso, i giardini di Villa Scassi sono un percorso di vita che ha segnato l’intera mia esistenza. Io, nato all’Ospedale Scassi, sono passato dai suoi viali e le sue scale già pochi giorni dopo la mia venuta al mondo. Chissà se su una carrozzella o in braccio alla mia mamma? Ma di sicuro è stato il mio primo tragitto per raggiungere il centro di San Pier d’Arena. Pochi mesi dopo mi sono trovato seduto su uno dei famosi leoni di Villa Scassi per la famosa foto di rito dei veri sampierdarenesi.
Villa Scassi era, e forse anche oggi è così, divisa in settori dedicati. Il primo piano, l’ammezzato, il secondo piano, quello con la fontana al centro, il secondo ammezzato e il vialone centrale, che porta a corso Scassi dove c’è l’ospedale, con quattro aree dove ora ci sono giochi per bambini, una pista di pattinaggio e un campetto di calcetto.
Quando andavo all’asilo frequentavo il primo ammezzato, dove ora i cani sono liberi di giocare e fare amicizia tra loro, accompagnato da mio nonno che mi controllava mentre mi divertivo con altri bambini e, intanto, faceva le sue amate parole crociate.
Poco più grande, nel periodo delle scuole elementari, ho iniziato a passare i miei pomeriggi, dopo aver fatto i compiti a casa, al primo piano, quello con la vasca al centro. Ai miei tempi, nella parte laterale del piano verso via Balbi Piovera, c’erano giochi realizzati con tubi metallici: ne ricordo uno bellissimo fatto a forma di torta nuziale, sul quale i bambini della mia età si arrampicavano, fino ad arrivare alla cima, sbucando come gli sposini nel dolce del pranzo di matrimonio. Proprio in quel periodo incominciai a fare le mie prime conoscenze con l’altro sesso. Bambine carine con lunghi capelli, con occhi stupendi, con una parlantina sciolta e tutte molto, e forse, furbe. Avevano un solo difetto: erano terribilmente prepotenti e volevano giocare solo a quello che piaceva a loro e, allora, noi maschietti dopo aver sopportato una gara a “pampano” ed esserci annoiati a morte facendo “uno, due, tre… stella”, appena arrivava un amico con un pallone scappavamo nell’area centrale del piano, vicino alla fontana, e ci impegnavamo in furibonde partite a calcio, finché non arrivava un vigile a sequestrarci il pallone. Finite le elementari, con l’inizio della scuola media e dell’adolescenza cambiai anche le mie abitudini ai giardini. Abbandonai il lato destro del primo piano e cominciai a passare il tempo in quello sinistro. Iniziai a frequentare più le panchine che i giochi, a parte le solite furibonde partite a calcio. Le panchine erano il luogo di ritrovo di ragazzini e ragazzine. Prima obbligatoriamente divisi, femmine da una parte, maschietti da un’altra; poi, grazie a sottili tecniche di avvicinamento, finalmente seduti tutti insieme per chiacchierare, ridere e giocare. Poi, tra la seconda e la terza media, arrivò il grande salto: il primo piano non era più adatto, troppe mamme, troppi nonni, troppa gente che ci poteva guardare. Il passaggio fu obbligato ed io, insieme alle mie amiche e ai miei amici, ci trasferimmo nella prima area a destra al lato del vialone centrale, dove c’erano poche panchine, zero bambini piccoli e, soprattutto, zero adulti. Lì era davvero un altro mondo. Ragazzi e ragazze sempre più vicini. Non più giochi infantili, era arrivato il momento dei primi innamoramenti. Io mi innamorai di una ragazzina che si chiamava Chinita. Mi faceva davvero impazzire: aveva un viso bellissimo, due occhi stupendi e capelli castano chiaro lunghissimi. Naturalmente, come tutte le ragazze di quell’epoca, portava obbligatoriamente jeans Levi’s, magliette Lacoste e scarpe College. Tra noi non accadde mai nulla, ma per me fu davvero l’inizio di un’altra vita. Stavo diventando un uomo.
Dopo l’amore, chissà se mai corrisposto, con Chinita conobbi altre ragazzine e con qualcuna di loro iniziarono piccole storie, magari di soli pochi giorni, sempre nella stessa area a destra del vialone dei giardini, e arrivò un altro momento decisivo: il primo bacio.
Ma i giardini di Villa Scassi non furono per me ragazzino solo primi amori. Furono sempre furibonde partite di calcio e, soprattutto “sigarette con rabbia fumate” come diceva Francesco Guccini. Sigarette acquistate sciolte e inserite dal tabacchino in bustine di carta con la pubblicità di carte da gioco. Sigarette fumate insieme agli altri amici, con il solito che non partecipando alla colletta per comprarle, mi chiedeva: “Mi lasci la cicca?”.
Tutto questo fu, fino ai primi anni ’70. Poi, per me, i giardini di Villa Scassi, scomparirono. Arrivarono altri luoghi di San Pier d’Arena che ricordo con nostalgia: la Croce d’Oro, l’Universale, il bar Carioca, il Boomerang, il Topsy e tanti altri luoghi che mi riportano alla mia gioventù.
Ma per un vero sampierdarenese Villa Scassi non scompare mai. Dopo aver vissuto per circa vent’anni lontano da San Pier d’Arena, nel 2010 ci sono tornato definitivamente per non lasciarla mai più.
Ora i giardini di Villa Scassi li rivivo intensamente con la mia nipotina Nora. Lei è felice. Io sono felice. Questi sono i giardini di San Pier d’Arena. Un mito, assolutamente un mito.
Stefano D’Oria